di Lorenzo Plini
In Clinamen – periodico di cultura umanistica n. 4, pagg. 25-27.
“Non è importante la meta ma il cammino” scrive Coelho nel Il cammino di Santiago.
Probabilmente i viaggiatori del XVII e del XVIII secolo si sarebbero trovati d’accordo con il celebre scrittore brasiliano. Perché per molti di loro era il viaggio stesso e tutta l’esperienza che ne scaturiva ad essere più importante della meta. Ma per comprendere questo, dobbiamo innanzitutto liberarci dalla concezione di viaggio che abbiamo oggi, il viaggio tout court che spesso identifichiamo con il turismo di massa o con la mera vacanza. Dobbiamo poi renderci conto che in quei secoli non era facile viaggiare come lo è oggigiorno, i mezzi di trasporto erano enormemente più lenti e di conseguenza le distanze si allungavano inesorabilmente. Quindi i viaggi non potevano essere di pochi giorni, ma finivano per durare alcuni mesi. È facile comprendere che per viaggiare erano necessari soldi che avevano a disposizione solo famiglie aristocratiche e benestanti.
Ritroviamo il viaggio sin dagli albori dell’umanità, è stato un elemento sempre presente e a volte imprescindibile nella nostra storia. Basti pensare ai primi uomini che lentamente abbandonarono l’Africa orientale per poi abitare tutte le zone del pianeta; oppure ai viaggi di esplorazione che portarono alla scoperta del continente americano, per usare un esempio più comprensibile. La vastità che si presenta davanti a noi quando decidiamo di compiere un viaggio, la ritroviamo facilmente nella parola stessa e negli innumerevoli sensi che essa può assumere. Ho deciso di guardare ad una piccola parte di tutto questo orizzonte, alla connotazione ben specifica che assumeva in quei secoli.
Sto parlando del Grand Tour, termine coniato da Richard Lassels (1603?–1668). Egli compì ben cinque viaggi in Italia, e la sua opera venne pubblicata postuma nel 1670 a Parigi con il titolo Voyage or a complete journey through Italy, in cui ci fornisce una descrizione dell’Italia, del suo popolo, della vita intellettuale di quel periodo nonché della situazione politica e della realtà economica. Lassels non era di certo l’unico ad aver fatto viaggi del genere, a partire dal Cinquecento abbiamo numerosi esempi di viaggiatori soprattutto inglesi, che partivano per l’Europa continentale per poi giungere nel nostro paese: ad esempio, Thomas Howard conte di Arundel (1585-1646) un diplomatico alla corte degli Stuart, cui i ricordi dei viaggi in Italia sono raccolti nel volume Remembrances of things Worth Seeing in Italy; o il diario di John Evelyn (1620-1706), che fra il 1644 e 1646 passando per la Francia visitò le città toscane, Roma, Napoli e poi Bologna, Ferrara, Venezia e descrivendo l’Italia come la culla della tradizione umanistica e rinascimentale. Difatti quello del Grand Tour è un fenomeno culturale che si è originato proprio in Gran Bretagna sul finire del Rinascimento, e conoscerà il suo splendore con il Neoclassicismo, cioè con la riscoperta della civiltà greca e romana, fino ad arrivare al Romanticismo.
È semplice evidenziare la funzione pedagogica che assumeva il Grand Tour: infatti a partire erano – soprattutto – giovanotti benestanti o i rampolli di nobili famiglie che uscivano dai fasti dalla loro condizione agiata, dalla loro vita ovattata da cui erano attorniati, per vedere e toccare con mano la realtà del loro tempo, ma anche per ammirare luoghi, culture, arti e genti diverse. Anche se lo stesso Lassels consigliava i viaggi non solo ai gentiluomini per completare la loro formazione, ma anche ai mercanti, ai militari e agli studiosi in genere. La meta prediletta del Gran Tour era proprio l’Italia, ha testimonianza del fatto che la bellezza e la ricchezza del nostro patrimonio artistico – culturale e paesaggistico erano già riconosciute ed apprezzate nella tarda modernità.
Ma fra tutti gli avventurieri che si sono cimentati in questo tipo di viaggi, il più famoso – e forse il più emblematico – è quello di Johann Wolfgang von Goethe. Quando egli decide di intraprendere il suo Gran Tour in Italia, egli ha già alle spalle una tradizione consolidata di più di 150 anni di viaggi che si snodavano in Europa e in Italia. Pochi giorni dopo aver compiuto 37 anni d’età, Goethe parte da Karlsbad – cittadina non troppo lontano da Stoccarda – alle 3 del mattino del 4 settembre 1786. Parte con un passaporto falso, forse per non farsi riconoscere dato che è già famoso grazie al romanzo I dolori del giovane Werther. Dopo alcuni giorni di viaggio l’11 settembre valica il confine linguistico fra il tedesco e l’italiano, arriva infatti a Trento, una tappa di passaggio per giungere poi sulle rive del lago di Garda. Il 16 settembre è la volta di Verona, che visita alla ricerca quasi spasmodica di monumenti e architetture, ma soprattutto per ammirare l’Arena. Questa sua passione per l’architettura verrà soddisfatta a Vicenza, di fronte alle opere di Andrea Palladio (1508-1580). Dopo aver visitato Padova, Goethe soggiorna dal 28 settembre al 14 ottobre a Venezia, coronando quello che per lui era un sogno. In quelle settimane Goethe vede per la prima volta in vita sua il mare, e si diletta nella città delle maschere, del teatro e della commedia dell’arte. Lo scrittore tedesco se da un lato rimanere affascinato dalla bellezza della Serenissima, dall’altro non può non notare la sporcizia presente nelle strade e la noncuranza dell’autorità politica. Le tappe successive del suo Grand Tour sono Ferrara, dove visita la tomba di Ludovico Ariosto, e Bologna dove sale in cima alla Torre degli Asinelli. Il 25 ottobre è la volta di Firenze, dove rimane – sorprendentemente – solamente due o tre ore, troppo smanioso di giungere a Roma entro il 1° novembre per la festa di Ognissanti. La fretta però non gli impedisce di fare una breve deviazione in Umbria, per ammirare le città di Assisi e Spoleto. Nella città eterna Goethe ha la compagnia del pittore tedesco Wilhelm Tischblin (1751-1829) che lo ritrae in un famoso dipinto nella campagna romana, e che lo accompagnerà fino a Napoli. All’entusiasmo iniziale per Roma, si sostituisce ben presto in lui una visione critica della realtà che ha di fronte, in particolar modo verso la figura del Papa e più in generale della Chiesa Romana, che inizia ad osservare con l’occhio del protestantesimo. Più il suo Grand Tour si spinge verso sud, più Goethe rimane affascinato dai luoghi che ha la fortuna di visitare. Di Napoli, dove resta per un mese, scrive: “Napoli è un paradiso, ognuno vive in una specie di ebbrezza e di oblio di sé stesso!”. Durante il soggiorno a Napoli, Goethe non si fa mancare delle escursioni sul Vesuvio, con una delle quali arriva sino in cima fra pietre laviche, fumi e vapori. Resta affascinato soprattutto dalla lava, che definisce come “un informe orribile ammasso che di continuo divora sé stesso e dichiara guerra a ogni senso del bello”. In quei giorni si reca a Pompei, agli scavi di Ercolano e visita molte delle città che si affacciano sul golfo. Titubante si imbarca da Napoli alla volta della Sicilia, un viaggio non facile sul finire del Settecento a maggior ragione per gli stranieri. Dopo cinque giorni di viaggio sbarca in una Palermo piena di sporcizia. Dopo qualche giorno va a Bagheria, sempre ospite di qualche nobile famiglia siciliana, e poi verso Agrigento per visitare la Valle dei Templi. Da lì l’entroterra collinare siciliano che – a detta dello stesso Goethe – non gli riserva la migliore delle accoglienze, per arrivare a Catania. Lì prende subito contatto con i nobili locali, ed organizza una spedizione sull’Etna che non giunge sino in cima a causa delle avverse condizioni meteorologiche. Da Catania si muove verso Taormina e da lì giunge a Messina, trovando una città ancora in ginocchio dopo il terremoto del 1783. Così Goethe si imbarca per tornare a Napoli. Nonostante le alterne fortune del viaggio siciliano, Goethe scrive: “L’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che c’è la chiave di tutto”. Soggiornando per la seconda volta a Napoli, Goethe si sofferma sulle differenze fra il Nord e il Sud dell’Europa; argomento che nel nostro paese dopo la formazione dello Stato unitario prenderà il nome di Questione meridionale.
Da tutto ciò ne deriva il saggio Viaggio in Italia, scritto da Goethe tra il 1813 e il 1817 in due volumi e pubblicati rispettivamente nel 1816 e il 1817, a cui si aggiunge un terzo volume pubblicato nel 1829 per la seconda visita di Goethe a Roma.Il senso che si cela dietro al viaggio di Goethe, ma anche al Grand Tour nel suo insieme, che lo fornisce lo stesso scrittore e poeta quando scrive: “Lo scopo di questo mio magnifico viaggio non è quello di illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti”.