di Camilla Russo
William Shakespeare è all’alba della sua carriera di attore e drammaturgo quando, nella primavera del 1593, pubblica il poemetto erotico intitolato Venus and Adonis.
L’opera si pone all’interno della moda dei cosiddetti epilli elisabettiani, composizioni narrative a carattere e di argomento epico, che fioriscono nel panorama letterario inglese dell’ultimo decennio del sedicesimo secolo.
Sono molti i poeti che si cimentarono nella scrittura di questi poemi e molti di loro erano anche drammaturghi, ma solo Shakespeare sceglie di infondere nella sua opera tutta la corposità e la fisicità di un testo teatrale.
Il drammaturgo manovra i suoi personaggi come se fossero appassionati attori su di un invisibile palcoscenico, guida le emozioni del lettore come a teatro si guidano quelle del pubblico.
Rinunciando alla più libera espressività che una creazione puramente narrativa gli avrebbe concesso, si avvicina all’esempio di Ovidio nella profonda sensibilità per l’animo femminile che già il poeta latino aveva abilmente dimostrato nel I secolo a.C.
Ma a dispetto della tradizione epica-mitologica, i personaggi di Shakespeare sono tutt’altro che idealizzati: sebbene in Ovidio, Adone appaia come un personaggio talmente perfetto da non sembrare reale, in Shakespeare, al contrario, sembra assomigli più ad un ragazzo di campagna che non ad un eroe del mito. Persino gli animali: dal cavallo di Adone, ai cani da caccia, fino al cinghiale che dilania il corpo del bel giovane, hanno una vitalità per certi versi più dirompente di quella della Dea impazzita d’amore e del ragazzo che le sfugge.
In passato, Ovidio aveva portato a compimento nella sua opera un progressivo distacco dai suoi predecessori, presentando un nuovo modello di figure mitiche e divine della tradizione epica: spogliate dalla loro sacralità e solennità, esse deponevano ogni dimensione ultraterrena e ostentavano modi comportamentali, passioni e sentimenti tipicamente umani, presentati talora nel loro aspetto più degradante.
Allo stesso modo, anche la Venere di Shakespeare cade in balia degli eccessi che caratterizzano il modo di agire, di pensare degli esseri umani e tipicamente umana è la passione d’amore.
Non si tratta di un sentimento raffinato ed elegante, bensì l’abbandono di ogni visione oggettiva del reale: pura follia e violenta passione.
Dotato di una notevole finezza psicologica e di un’indubbia forza performativa, il poema inglese si estende per 1194 versi ed il tema, che proviene dal decimo libro delle Metamorfosi del poeta latino, è sviluppato da Shakespeare in maniera originale: presentando il suo fulcro nella tensione irrisolta tra il desiderio incontenibile che manifesta la Dea e la resistenza del giovane a cedere all’estenuante seduzione divina.
Ispirato inoltre all’omonimo dipinto di Tiziano Vecellio, nel quale è possibile scorgere la contrarietà di Adone all’abbraccio della Dea, il drammaturgo infrange il tabu del contatto tra uomo e Dio, rovesciando le attese circa la loro relazione e complicando talune dinamiche della tradizione classica.
L’opera è dominata dalle offerte d’amore di Venere, dalla ricerca di contatto fisico, di baci, e dalla lunga perorazione in cui la Dea cerca di convincere il giovane, del tutto riluttante, a ricambiarla.
Il desiderio di Venere è perciò un desiderio umano fin dalla sua fenomenologia patologica, ma elevato all’ennesima potenza dal suo status divino. La passione si trasforma presto però in una prefigurazione, tra piacere e terrore, della morte di Adone nella caccia del cinghiale: dando spazio al desiderio perverso di morte come segno estremo dell’impulso erotico, e solo in un secondo tempo sorge il compianto e il dolore per la metamorfosi dell’amato in anemone.
Ma l’Amore può persistere al di là della metamorfosi?
Nel poemetto la metamorfosi non rappresenta un ostacolo rispetto alla passione amorosa, diversamente la preserva, si presenta come ultima possibilità di sottrarre tale sentimento al suo completo annientamento, attraverso la conservazione e la tramutazione dell’altro e della vita stessa.
Spezzando la dicotomia tra vita e morte, tra realtà e ideale, la metamorfosi si pone a difesa dell’Eros e della vita, come fine ultimo del destino umano.
Pur varcando la soglia della morte crea una correlazione con l’esistenza precedente, sia pure in nuove forme, sanando eventuali disuguaglianze e accordando la giusta destinazione ai personaggi, agendo quindi come meccanismo di equilibrio.
Il carattere ambiguo di questo mutamento e continuità al tempo stesso, non riflette adeguatamente la natura precaria dell’identità umana, ma finisce per rappresentare la fissità della forma esteriore, a cui l’individuo non può sottrarsi.
Tuttavia, né la morte né la metamorfosi finale di Adone in fiore conciliano gli istinti di Venere, poiché soltanto dopo avere posato il fiore nel suo seno la Dea è certa che il suo Amore lì vivrà e durerà in eterno, sottratto a quella morte che lei indirettamente gli aveva dato:
“And says within her bosom it shall dwell,
Since he himself is reft from her by death.”
Solo in quel momento, stanca del mondo, ma soddisfatta per essersi impossessata dell’oggetto del suo desiderio, può fare ritorno all’isola di Pafo, per vivere nell’ombra.
L’amore diviene quindi mutamento e movimento, ed il motivo della metamorfosi, che non si può scindere da esso, ha esercitato il suo fascino non solo nel mondo antico Greco-Romano, come con Ovidio: dove il motore stesso delle trasformazioni è sempre Amore; ma anche nelle arti e letterature dell’epoche successive: ritrovandolo così anche in Shakespeare, che riprende il capolavoro ovidiano con una grazia e leggerezza quasi eguagliabile all’autore latino.