Enrico Molle
Desolazione del piccolo poeta sentimentale
Sergio Corazzini
I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tramare d’amore e d’angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente,
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.
Nei primi anni del Novecento si sviluppò una corrente letteraria dai toni malinconici, contrapposta alla poesia celebrativa e all’estetismo che avevano raggiunto con Carducci e D’Annunzio il loro apice. Un gruppo di poeti, pur non coordinati tra loro, diede vita a una lirica che rifiutava ogni tipo eroismo e che si conformava in precise scelte linguistiche e tematiche. Fu il critico letterario Giuseppe Antonio Borgese, con una recensione alle opere di alcuni di questi poeti (Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves), apparsa sul quotidiano La Stampa l’uno settembre del 1910 e intitolata Poesia crepuscolare, a denominare di fatto questa categoria letteraria definita poi “crepuscolarismo”. La metafora del crepuscolo scelta dal critico voleva indicare lo status di lento spegnimento della poesia italiana, caratterizzata ormai da toni tenui e smorzati, che non aveva più particolari gesta o emozioni da celebrare, al contrario testimoniava una vaga malinconia.
Prendendo in analisi la poesia italiana, questa nuova corrente raffigurava appunto un “mite e lunghissimo crepuscolo”[1] che arrivava dopo il mattino rappresentato dalle cosiddette Tre Corone, ovvero Dante, Petracca e Boccaccio, il mezzodì rappresentato da Boiardo, Ariosto e Tasso, il primo meriggio delineato con Goldoni, Parini e Alfieri e infine il vespro tracciato da Foscolo, Manzoni e Leopardi.
All’interno del crepuscolarismo si inquadra la breve e commuovente esperienza di Sergio Corazzini, un giovane ragazzo romano segnato da un’esistenza tormentata, vissuta prima nella monotonia del mondo borghese, poi nella povertà aggravata da alcuni lutti familiari[2] e dalla malattia: morirà all’età di ventuno anni a causa della tubercolosi.
Nonostante la prematura scomparsa, Corazzini è riuscito a imporsi nella memoria letteraria italiana grazie a un notevole numero di raccolte poetiche[3], tutte attraversate da alcune costanti come il pessimismo, la malattia e la malinconia esistenziale, temi classici della corrente crepuscolare.
Il suo esordio poetico avviene a soli sedici anni, in piena adolescenza, quando il giovane pubblica alcuni sonetti su diverse riviste[4], nei quali si percepisce sin da subito una generale curiosità per i fatti della vita. D’altronde ciò accade a tutti i ragazzi vicini a quell’età in cui ci si affaccia al mondo e si cerca di capire e imparare quanto più possibile per arrivare preparati alla realtà adulta.
Tuttavia in questa prima fase della poetica di Corazzini, la malattia già latente inizia a ritagliarsi un ruolo importante, portando l’autore a riflessioni amare che alludono alla perdita della felicità, culminanti poi nel sonetto Vinto del 1906, in cui il poeta si domanda sul senso della vita e riflette sulla scomparsa, nel suo caso prematura, della “felicità infantile”[5]. Questo passaggio, comune a ogni persona e tipica dell’età adolescenziale, viene vissuto da Corazzini in maniera affaticata: egli è lacerato da contrasti interni che non gli permettono di focalizzare pienamente questo passaggio.
Di fatto l’adolescenza ha il merito di essere una fase transitoria che dalla fanciullezza porta all’età adulta e che di conseguenza si caratterizza per la perdita di una certa dose di innocenza e di felicità, provocando una sorta di disillusione generale che, in linea di massima, rafforza la coscienza di ogni persona. È chiaramente un passaggio doloroso, che può lasciare non pochi segni, ma necessario per approdare a una fase della vita in cui si affrontano maggiori responsabilità.
Corazzini si scontra con questo passaggio sin troppo in fretta, fiaccato dalla malattia e costretto da una sensibilità curiosa e indagatrice, degna di ogni poeta, ad accelerare le tappe per scoprire cosa c’è dopo, rimanendo così sospeso tra l’infanzia e una maturità appena lambita. Ed è proprio qui che si sviluppa tutta la sua poetica, quella di un eterno fanciullo che rifiuta l’adolescenza e che quindi decide di rinunciare a questo passaggio perché è consapevole di non poter approdare (a causa delle precarie condizioni di salute) a una fase successiva.
Queste riflessioni trovano il loro apice in quello che si può definire il manifesto poetico di Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale, opera contenuta nella raccolta Piccolo libro inutile, nella quale oltre a toccare i classici temi del crepuscolarismo, l’autore raggiunge i picchi più alti della sua lirica, dialogando apertamente con la morte e gettando le basi per un modo di fare poesia che caratterizzerà il Novecento. In quest’opera Corazzini è un bambino e allo stesso tempo un adulto: egli ha saltato l’adolescenza e non è ancora pronto a divenire un uomo. Tuttavia la sua esistenza gli ha imposto questo salto e ciò lo porta a sentirsi sdoppiato, dichiarando al suo interlocutore di non essere un poeta, ma un semplice fanciullo e subito dopo annunciando il suo desiderio di morire perché ormai stanco della vita.
È evidente che le due cose, ovvero la briosità della giovinezza e la stanchezza in prossimità della morte, sono due elementi posti agli antipodi. Il fatto che Corazzini li affianchi di continuo in questa poesia, ci aiuta a capire il suo stato d’animo, schiacciato tra due realtà poste agli estremi dell’esistenza, ma che in lui sono entrate in collisione a causa di un’adolescenza non vissuta.
Questa mancanza causa una scissione nel poeta che riconoscendosi in un fanciullo ancora ingenuo, che gioisce per le cose semplici della vita tanto da arrossire nel raccontarle, d’un tratto si trova faccia a faccia con la morte, capolinea dell’esistenza, di fatto non ancora non concepibili per il fanciullo. Ne scaturisce un’altalena di riflessioni poiché ogni qualvolta l’idea del fanciullo si fa viva, la sofferenza e la morte sopraggiungono e gettano il poeta in uno stato di sconforto, fino a quando, nell’ultima strofa, in un barlume di lucidità si arrende alla dura realtà che lo vede prossimo alla fine.
Desolazione del povero poeta sentimentale si pone dunque come una delle liriche più toccanti e forti di tutta la letteratura italiana dello scorso secolo e l’esperienza poetica di Corazzini, tanto breve quanto intensa, va dunque a inquadrarsi come una delle più significative, bloccata così come ci è arrivata in un limbo dalla quale il giovane poeta lancia un grido d’aiuto tramite i suoi versi e che oggi risuona nell’anima di chi si trova leggerli.
[1] Cfr. G. A. Borghese, «Poesia crepuscolare» in La Stampa, 1 settembre 1910.
[2] A causa di alcune errate speculazioni in borsa fatte dal padre di Sergio, la famiglia di Corazzini si ritrovò in condizioni economiche precarie. Successivamente la madre e un fratello si ammalarono di tisi (che causerà la morte del fratello) e un secondo fratello morirà per incidente.
[3] Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libo per la sera della domenica (1906).
[4] Il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco e risalente al 1902, verrà pubblicato sul Pasquino de Roma. Sempre nello stesso anno il sonetto di settenari in lingua, Partenza, sarà pubblicato Rugantino, mentre La tipografia abbandonata, uscirà su Marforio.
[5] “Mamma questa è la vita?! Allor la santa / felicità infantile non perdura?”