Tibullus at Delia’s ( (1866), Lawrence Alma-Tadema. Olio su tavola, Museum of Fine Arts, Boston, USA
Pierluigi Finolezzi
Il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare è uno dei componimenti più noti e celebri della produzione poetica di Dante prima della Divina Commedia. Contenuto nel cuore (cap. XXVI) del suo capolavoro giovanile, Vita Nova, il testo costituisce il culmine dello stilo della loda con il quale l’autore tesse il personale elogio di Beatrice, la donna che grazie al suo saluto è capace di dispensare grazia, beatitudine e redenzione a tutto il genere umano.
In 14 versi il poeta spoglia la donna di ogni fisicità, a tal punto da renderne impossibile ogni descrizione proiettandosi, con decenni di anticipo, verso quel corto il dire e quella mancanza di fantasia che contraddistingue le ultime terzine di Paradiso, XXXIII (vv. 121 ss.). È proprio nel mezzo della Vita Nova e della loda dantesca che Beatrice compie il suo scacco, “angelicizzandosi” e riprendendo quel posto privilegiato accanto a Dio che le spettava sia secondo i canoni stilnovistici, sia secondo la prospettiva dantesca del loro superamento, portando l’Alighieri a dichiarare in chiusa della Vita Nova di non dire più di questa benedetta infino che io potesse più degnamente trattare di lei e di sperare di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna (VN, cap. XLII), passi nei quali non può non vedersi un’allusione alla Commedia e più precisamente al Paradiso.
Ma nel descrivere la scena della gentilissima donna che venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per la via, le persone correano per vedere lei quanto è possibile che Dante abbia potuto attingere ad un modello letterario noto, mutandolo al suo gusto e alla sua situazione narrativa e stilistica? Rispondere a questa domanda non è facile, a causa dell’inconsistenza materiale della biblioteca dantesca. Non sappiamo, infatti, quali testi l’Alighieri possedette, cosa lesse e dove. Nulla ci è giunto di scritto e postillato dalla sua mano e questo rende di certo molto più difficile ricostruire i rapporti intertestuali tra le opere dantesche e quelle della tradizione classica o medioevale. Fatta eccezione per specifiche ed evidenti macroaree, a lungo e approfonditamente studiate, tutto, o quasi, si riduce a ipotesi e congetture, possibili ma al tempo stesso labili e di difficile dimostrazione.
Una di queste strade è quella che si cercherà di ripercorrere in questo contributo, collegando direttamente il capitolo XXVI della Vita Nova e il suo già citato sonetto con alcuni versi di una delle più celebri elegie del II libro di Albio Tibullo (54 ca-19 a.C. ca):
Ahimé, pare che le fanciulle preferiscano i ricchi:
giungano ormai le prede, se Venere brama ricchezze,
affinché la mia Nemesi possa nuotare nel lusso
e incedere per la città ammirata per i miei doni.
Indossi lei una veste delicata che una donna di Coo
ha tessuto e ha abbellito di vie dorate:
possieda schiavi di colore che l’India abbrozza
e che il fuoco del Sole ha bruciato per aver avvicinato troppo i cavalli:
facciano a gara per offrirle i loro sfarzosi colori
l’Africa lo scarlatto e Tiro la porpora. (Tib., II, 3, 49-58)[1].
Dopo aver ripudiato la guerra e cantato ed elogiato la campagna nella quale vivere intensamente l’amore con Delia (I, 1; 2; 3), per Tibullo è giunto il tempo del dissidium (I, 5; 6), della separazione dall’amata che tradisce il poeta con un altro uomo. A nulla è servita la consolazione tra le braccia del giovane Marato (I, 4; 7; 8) che, bramoso delle ricchezze di un uomo più anziano, tradisce anche lui il poeta (I, 9), al quale non rimane che cercare la sua vendetta tra le braccia di un’altra donna, Nemesi. Ma questa, che porta appunto il nome della dea della vendetta, è spregiudicata e frivola a tal punto da acuire la disperazione nell’animo dell’amante: la campagna non è più il luogo dove dare sfogo ai propri vagheggiamenti amorosi, ma diventa la prigione dove Nemesi è andata a vivere con un dives amator e dove l’io poetico è disposto a farsi imprigionare pur di essere vicino all’amata.
Nemesi è chiamata in questi versi mea proprio come Dante definisce donna mia Beatrice, ma questo può non significare nulla alla luce della tematica amorosa trattata. Un’analogia più significata è rappresentata da quel ogne lingua devien tremando muta/ e li occhi non l’ardiscono di guardare che sembra ricalcare il per urbem incedat conspicienda tibulliano. Ma il rovesciamento del possibile modello si compie per Dante al v. 6 dove il poeta dice che Beatrice è d’umiltà vestuta al contrario di Nemesi che, quando indossa la veste dai filamenti dorati e sgargia i dona fatti dal poeta e i vari accessori e gioielli scarlatti e purpurei, luxuria fluat. È ancora qui che si compie in Dante quella smaterializzazione fisica e quella sublimazione che rende la sua donna una cosa venuta/ dal cielo in terra a miracol mostrare, al contrario della donna tibulliana che con il suo sfarzo, i suoi schiavi di colore, il lusso sfoggiato resta pesantemente ancorata ai beni terreni e quindi impossibilitata ad ergersi come figura gentile e onesta.
Tutti guardano e ammirano Beatrice senza esimersi dal parlare di lei o dal sospirare al suo passaggio: a colpire sono la sua singolare e semplice bellezza e la dolcezza provata dal cuore nel guardarla attraverso gli occhi. Anche Nemesi è ammirata e guardata da chi la incontra, ma non per la positività del suo incedere, bensì per la negatività del suo essere eccentrica e sontuosa.
Beatrice si pone quindi come un anti-Nemesi proprio come Nemesi è all’esatto opposto della Beatrice dantesca. La concezione dell’amore nella Vita Nova è filtrata attraverso la tradizione provenzale e stilnovistica, largamente analizzata dalla critica e qui manifesta, ma agli antipodi del XXVI capitolo ci può essere anche un’eco tibulliana che, seppur di difficile dimostrazione, non è escludibile.
Il codex più antico delle elegie tibulliane, l’Ambrosiano R. 26 sup., fu rinvenuto nel XIV secolo da Coluccio Salutati (1330-1406), nato sette anni dopo la morte di Dante, e da questi passò poi al Petrarca. Tale codice è ritenuto essere una copia di un archetipo più antico e mai rinvenuto, indicato nello stemma con O e scomparso molto probabilmente dopo l’epoca carolingia.
L’Alighieri non potette quindi mai accedere né all’Ambrosiano né, credo, al suo archetipo, ma questo non significa che egli non potesse conoscere alcune delle elegie del Corpus Tibullianus. Gli studiosi ritengono che la conoscenza completa di Tibullo non possa essere accertata, ma senza alcun dubbio se ne può ipotizzare una probabile e limitata ad alcuni componimenti contenuti negli excerpta e nei florilegi. Se si accettasse la notizia del Boccaccio che vorrebbe un Dante intento a studiare in Francia non si può escludere che proprio oltralpe l’Alighieri abbia avuto tra le mani il Florilegium Gallicum o gli Excerpta Frisingesiana del XII secolo, dove potette leggere degli estratti dei libri di Tibullo.
Un altro plausibile codice è il Venetus Marciano lat. 497 (1811) proveniente da area veneta e risalente all’XI secolo, oggi conservato nella Biblioteca Nazionale Marciana. Il problema è, però, rappresentato dalle date: secondo Boccaccio Dante giunse in Francia dopo il soggiorno a Lucca e quindi dopo l’esilio del 1302 e lo stesso si deve dire per i soggiorni in area veneta; la Vita Nova risale, invece, agli Anni Novanta del Duecento e quindi prima del bando da Firenze.
Un incontro di Dante con Tibullo prima del 1302 è tuttavia ulteriormente evidenziato da alcune reminiscenze elegiache, non sappiamo quanto involontarie, presenti nelle giovanili Rime, dalle quali il poeta attinse del materiale per il suo prosimetro.
A questo punto viene da chiederci su che cosa Dante abbia potuto leggere i versi del poeta latino. Trovare una risposta è alquanto difficile, in primis per la non larga circolazione dell’autore classico durante il Medioevo e poi per le varie zone grigie ancora presenti nella biografia del poeta.
Se per quanto concerne il Venetus Marciano si può presupporre un precoce contatto con esso negli anni degli studi e degli impegni istituzionali a Bologna, diverso è il rapporto con i due manoscritti di area francese. Quanto è possibile che, seppur in maniera ridottissima, questi testi siano giunti in Toscana con la mediazione di Brunetto Latini o dei mercanti pisani? È possibile che nella loro rarità di esemplari sia il florilegio che gli excerpta siano giunti in Italia per mezzo di copie degli originali andate perse nel tempo? Forse Dante passò dalla Francia per motivi di studio già prima dell’esilio e quindi in età giovanile? Rispondere a queste domande allo stato attuale degli studi è impossibile anche per via della poca fortuna di Tibullo prima della scoperta del Salutati, ma senza alcun dubbio una presenza delle sue elegie nei versi danteschi della prima produzione, seppur minima e sporadica, è a mio parere ammissibile.
[1] Traduzione sul testo dell’ed. G. Lucks, 1987: Heu heu, divitibus video gaudere puellas:/ iam veniant predae, si Venus optat opes,/ ut mea luxuria Nemesis fluat utque per urbem/ incedat donis conspicienda meis./ Illa gerat vestes tenues, quas femina Coa/ texuit, auratas disposuitque vias:/ illi sint comites fusci, quos India torret,/ solis et admotis inficit ignis equis:/ illi selectos certent praebere colores/ Africa puniceum purpureumque Tyros.