di Alfonso Martino
È il trend topic del momento: nell’ultima settimana, tutti stanno parlando di The Squid Game, serie coreana prodotta da Netflix che ha registrato numeri impressionanti: la creazione di Hwang Dong-Hyuk, che l’ha tenuto impegnato dieci anni, è stata vista da 117 milioni di utenti, battendo il primato di Bridgerton come serie più vista della piattaforma di streaming e superando La Casa di Carta come serie non in lingua inglese più vista.
La serie è strettamente legata alla società coreana, dal momento che tratta una tematica lì molto sentita e già analizzata da Bong Joon Ho in Parasite: la forte disparità economica, che vede pochi ricchi contro una moltitudine di poveri, costretti a indebitarsi per arrivare a permettersi anche le cose più semplici. Dal punto di vista tecnico, The Squid Game prende spunto da saghe come Hunger Games e da pellicole coreane come Battle Royale, in cui viene ripresa l’idea di mettere in uno stesso luogo un gran numero di persone – in questo caso coloro che avevano ingenti debiti alle loro spalle – e metterli l’uno contro l’altro in sei prove mortali che consistono in giochi per bambini, con un montepremi che può cambiare la vita.
Lo spettatore inizia la serie osservando il punto di vista del protagonista Seong Gi-Hun e i motivi che lo porteranno a partecipare a questi giochi, fino ad arrivare alla conoscenza di altri personaggi centrali ai fini della trama come Alì, Sae-Byeok o Sang-Woo. Con il passare dei nove episodi, cresce il montepremi e di conseguenza aumenta l’istinto di sopravvivenza dei personaggi, disposti a tutto per garantirsi un futuro migliore.
Altri fattori legati alla serialità coreana sono la ricerca del cliffhanger (chi ha già visto tutta la serie capirà), la violenza mostrata senza troppi filtri, come accade ad esempio in Old Boy e un finale aperto, che molto probabilmente non resterà tale per molto tempo, visto l’enorme successo della serie e la volontà di Netflix di continuare la storia di Seong Gi-Hun.