Roberto Molle
Un giorno di novembre con la pioggia che rende onirico un paesaggio disposto a farsi invernale, è il pretesto buono per staccare il telefono, rimandare gli impegni, affrancarsi da tutto e trovarsi uno spazio – l’angusto studiolo piuttosto che l’angolo più illuminato in soggiorno – per apprezzare, in una estemporanea seduta d’ascolto, la musica di un musicista molto particolare che in questi ultimi giorni riempie buona parte delle mie giornate.
Si chiama Maurizio Vierucci, ma i suoi dischi portano il marchio di Oh Petroleum, è di Brindisi e divide la sua ispirazione tra l’Inghilterra e gli States.
Mi piace pensare a Oh Petroleum come a un’artista sui generis che ha mutuato suoni e parole da un universo parallelo travalicando confini territoriali e barriere mentali, approdando a una dimensione di grande respiro cosmopolita. Il suo percorso è comune a quello di tanti altri musicisti: inizio da batterista, poi strumentista in diverse band della città. Di base, i generi che hanno ruotato da subito nelle corde di Maurizio sono quelli che ancora oggi ne determinano l’imprinting, ovvero folk, blues, sperimentazione e rock’n’roll.
Quello della sperimentazione è l’elemento caratterizzante che lo ha portato a fondere la sua musica con altre discipline, collaborando con diversi artisti in spettacoli e azioni performative. In passato ha preso parte al programma di residenza internazionale, il Sound Res con Lee Ranaldo e David Lang, collaborando con la Found Sound Nation (organizzazione no profit di musica e istruzione con sede a New York).
Tre dischi all’attivo, Oh Petroleum, Memory of mine Memory to be e The script was about the enemy: per me tutto è pronto, l’ascolto può finalmente iniziare.
Il confronto maggiore è stato con Memory of mine che per tutto il tempo ha evocato scenari folk e blues di rimbalzo tra l’America e il Salento, con un mood così autentico che può facilmente ingannare sulle origini di quei suoni e di quella voce. Ebbene sì, Maurizio Vierucci, alias Oh Petroleum, canta in inglese con una voce che ha venature multiformi, buona per molte malinconie: un crooner insomma, che potrebbe fare il paio con quel Nick Cave destrutturato degli ultimi tempi.
Si potrebbero dire di Memory of mine cose del tipo: un album-affresco dai ritmi folk-rock, con un’estetica dark-blues, sonorità tribali e uno splendido cantato sciamanico; o anche, un album dai contorni gotici in ambito rock’n’roll; ma anche di splendide canzoni come Memory of mine dove l’aura di Jeffrey Lee Percie si materializza dalla copertina di Wildweed a dare man a dare manforte al nostro.
Memory of mine è un disco solitario dove diversi convitati di pietra hanno dato la loro benedizione, da Jeff Buckley a Neil Young, da Mark Lanegan a Johnny Foxx, la cui voce – aspirata da uno degli album più importanti degli Ultravox – riecheggia in Break my heart.
Il brano You lie you lie provoca fitte al cuore insinuando nostalgie, canti blues corali e feed di chitarre californiane che stordiscono per la bellezza.
A ruota è il tempo di Out of the truth, e le evocazioni non hanno più fine, perché il sound di questa canzone trasporta in quella San Diego (California), terreno fertile per le murder-ballads di tal Pal Jenkins e Tobias Nathaniel e del loro alt-rock. Poi gli altri brani, otto in tutto, rendono definitivamente Memory of mine memory to be un capolavoro senza tempo, seminale al contrario. Un disco che da contezza – se ce ne fosse ancora bisogno – del fatto che la musica è collegamento, interazione, linguaggio universale.