Approdi Oltre il confine Particularia

Sull’estetica della violenza, immaginata e reale

di Lorenzo Olivieri

I cronisti dell’epoca raccontano come alla prima delle Eumenidi di Eschilo, la violenza fosse tanta da indurre alcune madri all’aborto spontaneo e alcuni bambini e vecchi allo svenimento. Non sappiamo quanto questi racconti siano esagerati: nel valutare il racconto dei critici dell’epoca bisogna anche tenere in conto che il mondo della tragedia greca, di solito, non amava mostrare la violenza. La violenza era quanto più immaginata e forse proprio per questo ancora più potente ed evocativa, amplificata dalla personale immaginazione dell’orrore. Nella tragedia della Medea per esempio, la rappresentazione dell’omicidio dei figli da parte di Medea è lasciata totalmente alla fantasia del pubblico: i piccoli figli, in preda al panico, urlano di terrore off stage, fin quando sentiamo le loro urla di terrore cessare di colpo e capiamo che la madre è andata fino in fondo col suo piano. Immaginiamo soltanto quello che è successo dietro le quinte, nascosti dal pubblico: il coltello affondato nei corpi e gli occhi terrorizzati dei bambini, di fronte al loro ineluttabile destino.

La rappresentazione della violenza è qualcosa che ci ha sempre ispirato: il libro più stampato al mondo inizia con un omicidio. Il geloso Caino porta suo fratello Abele in un campo, sceglie una pietra, la più pesante che riesce a trovare a portata di mano e gli fracassa il cranio, lasciandolo in un bagno di sangue agonizzante nel campo. Nella Genesi in realtà, il racconto è liquidato in poche righe: la violenza è immaginata dal lettore, che in base al proprio background, alla propria cultura in fatto di rappresentazione della violenza e alla propria sensibilità, immaginerà il primo omicidio nel campo di grano.  

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La violenza è qualcosa che ci spaventa e attrae, lascia una profonda impressione nello spettatore. Lo sapevano bene gli artisti medioevali che dipingevano scene dalla crocifissione. La violenza sul corpo di Gesù, i segni sanguinolenti dei chiodi sulle mani, le piaghe delle torture, lasciavano i pellegrini intimamente impressionati e spinti a cercare la beatitudine eterna. Ma dove gli artisti potevano lasciare libera una sfrenata creatività erano le fantasiose rappresentazioni dell’inferno. L’immagine dantesca del diavolo che respinge con un forcone un dannato in un pentolone di pece, mentre altri scorticano, squartano e massacrano i peccatori, doveva essere stato un fortissimo strumento di propaganda, che ha forgiato secoli di incubi orrorifici su cosa ci aspetta nell’aldilà. La potenza dell’immaginazione è tale da immedesimarci in quello che vediamo e sentire in modo fisico la violenza su quei poveri peccatori, una volta umani, ora giocattoli nelle mani dei diavoli danteschi. L’Inferno di Dante rimane un bestiario di violenza decisamente ricco: non soltanto i diavoli, ma anche la “bellezza” dell’orrore delle vite delle anime. Penso che ricorderò per sempre l’emozione che mi fece vedere il conte Ugolino che morde la testa dell’arcivescovo Ruggieri per divorarlo. Gli occhi furiosi, non più umani, i denti che affondano nella testa del religioso e il sangue che schizzando colpisce tutti gli astanti della scena.

Sangue che è stato ampiamente usato nel cinema: le scene in cui viene usato, che siano splatter di serie b o cinema d’autore, sono di una bellezza disarmante. Il sangue ci coinvolge a livello viscerale, sconvolgendoci dentro ma non possiamo fare a meno da rimanerne affascinati. Come il sublime descritto dal filosofo Edmund Burke, la violenza ci spaventa ma non possiamo distogliere lo sguardo. In Shining lo spettatore viene annegato dal sangue che scende dalle scale, forse immaginato dalla fantasia impazzita del protagonista e solo sognato, ma comunque fortemente evocativo e reale. Nella famosa scena di Psyco, pur non vedendo l’atto di violenza, vediamo scorrere le prove dell’omicidio nello scarico della doccia. L’acqua che lentamente si colora di rosso fino a diventare completamente sangue, genera in noi un sentimento, quanto più in realtà immaginato (non sappiamo cosa sia successo off screen) che ci coglie allo stomaco disturbandoci. Mentre scrivevo, mi hanno detto che non potevo non scrivere del cinema tarantiniano: ma quella di Tarantino è una violenza tanto eccessiva da diventare irreale e non ci accoltella l’anima come quella più metaforica per esempio di Seven. Il serial killer, che secondo il critico letterario Joel Black è una sorta di artista la cui arte “si manifesta quale performance” in cui “non consiste nel creare, ma nel distruggere” in Seven uccide seguendo i peccati capitali, ma non vediamo mai il momento in cui l’atto avviene, ma solo l’atto di arte finale.

L’atto di guerra che ha turbato per la prima la maggior parte dei lettori di questa rivista è stato l’attacco alle Twin Towers l’11 settembre 2001. Ricordiamo tutti gli adulti fissi sul televisore a fissare le stesse immagini che venivano ripetute per tutto il pomeriggio, le torri avvolte nel fumo, l’aereo che impattava contro le finestre e i corpi che cadevano giù. La bellezza dell’orrore, come guardassimo tutti quanti un film che avrebbe cambiato il nostro modo di guardare alla violenza e alla guerra. Non era eccesso di violenza, era violenza stilizzata, montata dai telegiornali e spettacolarizzata per l’audience.  Quasi un secolo prima, il poeta parnassiano Laurent Tailhade aveva detto: “Qu’importent les victimes, si le geste est beau?” (che importanza hanno le vittime, se è stato un bel gesto?). Volutamente provocatorie, le parole di Tailhade sostengono la retorica della bellezza dell’atto violento, delle esplosioni e del sangue, la distruzione contro la creazione. Probabilmente Tailhade avrebbe apprezzato il cinema catastrofista di Michael Bay.

Post-Scriptum[1]: la foto che ho scelto come copertina dell’articolo è stata scattata il 19 dicembre 2016, ad Ankara. Un poliziotto turco, durante una mostra fotografica, ha sparato e ucciso l’ambasciatore russo. Un omicidio praticamente in diretta, fotografato da tutti i giornalisti presenti. La foto di Burhan Ozbilici, fotografo dell’Associated Press, ha vinto il World Press Photo. Nessuna traccia di sangue, un uomo che tira fuori una pistola, tre colpi di pistola e un corpo a terra. “ho pensato fosse un abbellimento teatrale”, ha detto il fotografo. La distruttiva bellezza della violenza.