di Lorenzo Di Lauro
Sergio Leone è principalmente conosciuto per aver inaugurato il filone degli spaghetti western, regalando a un genere ormai in crisi capolavori che sono rimasti nell’immaginario collettivo e che hanno ispirato artisti di estrazione totalmente diversa. Ha poi dimostrato di possedere un repertorio completo, dirigendo C’era una volta in America, il film con cui ha eguagliato i migliori gangster-movie di Coppola e Scorsese, cimentandosi ancora una volta in un campo sconosciuto per i registi italiani. In pochi tuttavia sanno che negli ultimi anni della sua vita stava lavorando ad un nuovo progetto, che sicuramente gli avrebbe permesso ancora di più di lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema.
Purtroppo questo progetto non ha mai visto la luce a causa della sua morte improvvisa. Alcuni anni dopo il regista Jean-Jacques Annaud si è ispirato al soggetto dell’ultima fatica leoniana per la realizzazione del film Il nemico alle porte, ambientandolo tuttavia a Stalingrado. Era il 1987 quando Leone annunciò la lavorazione ormai imminente di questo nuovo, complicato tassello del suo percorso cinematografico. Avendo a disposizione l’enorme budget di 100 milioni di dollari, il regista romano cominciò a fare i primi sopralluoghi nell’allora Unione Sovietica grazie all’intercessione del governo italiano, acquisendo tutta la documentazione necessaria per poter ricreare le atmosfere e le situazioni ideali di quella fase storica. A questo progetto si interessarono anche Steven Spielberg e George Lucas, per quello che probabilmente sarebbe stato un progetto che avrebbe coinvolto nuovamente Robert De Niro. Lo straordinario protagonista di C’era una volta in America aveva dato la sua disponibilità per lavorare nuovamente con Leone nei panni di un foto-reporter americano. Oltre a focalizzarsi sulla guerra l’intenzione del regista era quella di raccontare una complicata storia d’amore tra il protagonista e una ragazza russa, in uno scenario che li vedeva inevitabilmente contrapposti. A stimolare l’interesse di Leone era stato il libro del giornalista del New York Times Harrison Salisbury, che ricostruì la lunga fase dell’assedio e del quale il regista si innamorò mentre ancora era alle prese con la realizzazione di C’era una volta in America. Leone era consapevole che sarebbe stato un film dalle forti implicazioni politiche, ma era intenzionato a coinvolgere entrambe le parti nel progetto, dirigendo trattative con la Sovinfilm, una casa di produzione sovietica, perché si occupasse della co-produzione e co-sceneggiatura del film. Aveva inoltre intuito i lunghi tempi che sarebbero serviti per mettere a punto un lavoro così complesso, con migliaia di comparse e scene di massa che rendevano ancora più gravoso il compito.
Purtroppo il progetto non ha mai visto la luce, a causa della morte prematura di Leone: i figli Andrea e Raffaella non se la sentirono di portarlo avanti, e solo alcuni dopo il soggetto fu recuperato e adattato da Annaud per un film che non ha riscosso il successo mediatico desiderato. Anche in virtù della strettissima attualità cresce il rammarico per non aver potuto ammirare l’ultima perla del maestro Sergio Leone: un film che attraverso una storia d’amore avrebbe simbolicamente unito Americani e Russi, allora divisi sul fronte di guerra e che oggi in questi drammatici giorni sono tornati a guardarsi con ostilità.