di Enrico Molle
In Clinamen-periodico di cultura umanistica – n. 6, pagg. 35-37,
Quando si parla di Salvatore Toma, poeta magliese morto prematuramente all’età di 35 anni, ma tra i più grandi che il Salento abbia conosciuto, si parla della morte. È impossibile scindere le due cose in quanto ogni sua poesia è pregna di allusioni, presagi e descrizioni della morte, fortemente temuta, ma agognata e idealizzata, associata costantemente al suicidio, unico vero atto fedele al concetto del libero arbitrio che, in un mondo dominato dal caos, sembra aver perso di significato.
Leggendo l’intera opera di Salvatore Toma, si ha la forte impressione che il tema dominante della sua poetica sia un’insofferenza del vivere, dettata dalla piena consapevolezza di come l’esistenza stessa sia priva di senso. E questa impressione non è infondata, è proprio il poeta a confessarlo in più occasioni e a ribadirlo verso dopo verso fino a travolgere il lettore, che si ritrova disorientato in un’altalena di emozioni contrastanti. Tra l’altro l’angoscia esistenziale scaturita della consapevolezza di una mancanza di senso intrinseco nell’avvicendarsi di milioni di vite è una tematica largamente presente nella poesia di tutto il ‘900.
Tuttavia accostare l’intera produzione poetica di Toma al solo tema della morte e a quello del disagio di vivere, potrebbe risultare sin troppo frettoloso e banale. Come accade per ogni poeta, leggendo i suoi versi si va incontro a un intero universo pieno di fenomeni disordinati, ai quali l’autore ha cercato di dare un ordine. Tra le pieghe delle parole si celano numerosi messaggi latenti che sono stati disseminati, a volte consciamente e altre no, per chiedere aiuto: chi scrive chiede a chi legge di mettere ordine laddove lui non ci sia riuscito. Ed è proprio tra queste pieghe che è possibile scorgere l’insofferenza di Salvatore Toma per l’inesorabile scorrere del tempo, unico vero fenomeno irreversibile che ha ragione su ogni cosa.
Sotto questo punto di vista il significato stesso della vita viene rovesciato, poiché quando un animo sensibile scopre la presenza della morte, tutto appare vano, il tempo diventa soltanto il binario che porta alla fine dell’unica cosa che nessuno vorrebbe perdere. Toma scorge questo processo, tira giù il velo dell’autoillusione e preso dall’inquietudine decide di trovare un suo modo di vivere, accettando la fine, o meglio ancora cercandola perché ha troppa ansia di risolvere l’enigma più grande dell’esistenza. E allora intraprende la sua crociata contro il tempo e lo fa con la poesia, tentando di dominarlo a suo piacimento, minacciandolo di pianificare quando e come morire, prima che il tempo possa farlo per lui.
Il poeta, l’essere più sensibile dell’universo, prende coraggio, diventa arrogante e nasconde i suoi timori, prova ad innalzarsi e ci dice che per farlo «ci vuole il tempo, che a voi fa paura». Ed è vero, il tempo ci fa paura perché scandisce ogni cosa, non permette anomalie, non lascia scampo a niente e a nessuno, e quindi il poeta si ribella, il poeta accoglie, ma poi sfida il concetto del «Tempus edax rerum», ovvero del tempo che tutto divora, tanto da risultare come una gabbia che blocca ogni evento al suo interno e non permette libertà di movimento. In una controtendenza stoica, Toma rifiuta l’eternità che è il più grande sogno dell’umanità intera: «Per questo credo/ di vivere ancora per poco/ e non rischiare/ di sfiorare l’eternità».
Ma uno spirito così delicato e fragile, così amante della natura da come si evince nelle numerose liriche riordinate nella sezione Bestiario Salentino del XX secolo, è destinato a non reggere tutto il peso di questa grande angoscia, finendo per rimanere incastrato tra i dubbi e le contrapposizioni che accompagnano l’esistenza. Proprio quando questo accade, Toma produce i componimenti più disperati e vaneggianti, attraverso i quali ci lancia un segnale in preda al panico, ci spiega come si sente cercando di destarci per non sentirsi così solo. Urlando ci dice: «Non ci credo è un sogno/ un sogno/ tutto ciò che accade/ non posso credere/ che i vivi siano carne/ capace di tramontare». Non accetta l’evoluzione, non accetta che ci si debba completare per poi invecchiare, non accetta il tempo in ogni sua forma, tanto da arrivare a odiare persino il passato, troppo dolce rispetto al presente: «È il passato/ non è la morte/ che mi fa paura/ è il passato/ che è più funebre e più funesto/ del buio in una bara/ è il passato che mi dilania/ questo essere stati/ senza possibilità di ripetersi».
Salvatore Toma non desiderava la morte, semplicemente rendendosi conto della sua ineluttabilità, cercava di razionalizzarla, senza però riuscirsi perché a un animo poetico non è concesso giustificare la fine di ciò che di più prezioso ha: la vita e il suo vivere. Da questo tentativo irrealizzabile è scaturita una preziosa opera poetica, piena di deliri e di contraddizioni, dove la vera ossessione non è tanto la morte, ma la brutalità del tempo e la conseguente impossibilità di rimandare qualcosa che non si può rimandare. Il poeta è bloccato, non sente il pieno controllo di se stesso e, non riuscendo a farsene una ragione, dissente, pensando così costantemente al suicidio come estremo atto di libertà.
Salvatore Toma era l’amante della vita, la amava a tal punto da non poter accettare che fosse qualcun altro, ovvero il tempo, a portargliela via. Lui disprezzava la morte, avrebbe voluto non affrontarla mai, evitarla a ogni costo, tanto da contraddire se stesso sperando in quell’eternità che si era imposto di rifiutare come atto di sfida: «Vorrei essere immortale/ per un certo numero di anni/ sapere di non incappare/ in strani eventi/ sorprese disgustose/ lutti condanne rimorsi».
Ma paradossalmente la morte prematura, arrivata in circostanze mai ben chiare, non ha permesso per tempo che qualcuno allungasse la mano per aiutare il poeta a mettere ordine tra i suoi pensieri raffinati e inquieti, in modo da permettergli di ricongiungersi all’adorata terra con la pace nel cuore.