Lorenzo Plini
Interpretato da un giovane Matt Damon, il paracadutista ventiseienne James Francis Ryan è disperso dietro le linee tedesche dopo l’assalto anfibio di Omaha Beach durante lo sbarco in Normandia. Viene organizzata così una complicata operazione di salvataggio per riportare il soldato Ryan a casa, affidata ad una squadra composta da otto uomini scelti. Accolto bene dalla critica, il film di Spielberg conquistò cinque premi Oscar, tanto da essere inserito fra i cento migliori film americani. Ma fra le pieghe della Storia, nascosta fra eventi che segnarono profondamente il secolo scorso ci fu una vicenda per molti aspetti simile a quella del soldato Ryan: una missione di salvataggio durante il primo conflitto mondiale che riguardò migliaia di soldati in un territorio vasto come quello russo.
Nell’estate del 1914 all’inizio delle ostilità gli italiani, di lingua e cultura, che abitavano entro i confini dell’Impero Austro-Ungarico (nei territori irredenti come il Trentino, la Venezia-Giulia, Trieste e l’Istria) vennero arruolati sotto la bandiera dell’imperatore Francesco Giuseppe I e spediti sul fronte russo. Si stima che furono circa centomila gli italiani impiegati, dei quali circa trentamila si dispersero o caddero prigionieri dei russi, anche se molti dei quali si consegnarono volontariamente perché si rifiutarono di morire per una bandiera che non sentivano come la loro. Già nell’autunno dello stesso anno lo Zar Nicola II offrì all’Italia l’opportunità di rimpatriare i prigionieri, ma il governo Salandra rifiutò. Una scelta all’apparenza inspiegabile, ma che invece nascondeva alcuni calcoli politici rilevanti: nell’autunno del 1914 l’Italia era ancora neutrale rispetto al conflitto in corso, con un forte dibattito interno fra interventisti e neutralisti, e in quel frangente l’irredentismo rappresentava un problema non da poco perché finiva col coinvolgere l’Austria-Ungheria. Le cose non cambiarono neanche con l’entrata in guerra dell’Italia al fianco di Francia, Inghilterra e Russia. L’opinione pubblica italiana venne a conoscenza di questa vicenda solamente grazie agli inviati de La Stampa e del Corriere, che riuscirono ad arrivare al campo di prigionia di Kirsanov, a seicento chilometri a sud-est di Mosca, e a raccontare dei prigionieri italiani lì detenuti. Questo, assieme alla caduta del governo Salandra e alla formazione di un governo di unità nazionale, portò alla creazione della Missione italiana per la ricerca e il rimpatrio dei prigionieri di guerra, affidata al colonnello dell’esercito Achille Bassignano.
Ma il braccio operativo della missione fu il maggiore dei Carabinieri Marco Cosma Manera: piemontese, avviato fin da giovanissimo alla carriera militare, fu l’uomo giusto al momento giusto. Non venne scelto casualmente per quella missione, già impiegato in contesti esteri come Creta e la Macedonia, prodotto dell’intelligence italiana dell’epoca, Marco Cosma Manera era in grado di parlare fluentemente ben otto lingue (inglese, francese, tedesco, greco, turco, bulgaro, serbo e russo). Costui assieme al maggiore Squillero e al capitano Moda arrivarono in Inghilterra nell’estate del 1916. Poi si imbarcarono da Newcastle e attraversando il Mare del Nord e il Mar Baltico arrivarono a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo) in agosto. Subito si mise in moto la macchina diplomatica, che poteva contare sul pieno appoggio del governo italiano, per permettere il rimpatrio dei soldati dispersi nel nord della Russia. Il primo rimpatrio si rivelò un vero e proprio successo: dopo averli riuniti, Cosma Manera riuscì a farli arrivare nella città di Arcangelo, che si affaccia sul Mar Bianco e che guarda verso l’Artico. Utilizzando dei piroscafi asburgici abbandonati nel porto ma ancora in buono stato, riuscì a far imbarcare circa mille e settecento soldati. Le navi dopo aver circumnavigato buona parte della penisola scandinava raggiunsero l’Inghilterra, di lì la Francia e poi finalmente l’Italia. Ma il grosso dei soldati italiani era nel campo di prigionia di Kirsanov, che Cosma Manera raggiunse in treno da Pietrogrado, e dove trovò – tra ufficiali e soldati semplici – ben duemila e seicento uomini. L’organizzazione del secondo rimpatrio, però, venne ostacolato da tutta una serie di circostanze ed eventi che resero la vicenda di Cosma Manera quasi un’opera letteraria. Infatti, con il sopraggiungere dell’inverno russo i porti di Arcangelo e Pietrogrado divennero inutilizzabili a causa del ghiaccio, e anche se fossero riusciti a salpare c’era il problema degli U-Boot tedeschi che avevano incominciato la loro guerra sottomarina indiscriminata, per cui ogni piroscafo che solcava le acque del Mare del Nord rischiava di essere affondato. Ad Ovest e a Sud il fronte della guerra rendeva impossibile far transitare tutti quei soldati senza essere visti. Inoltre lo scoppio, nel febbraio del 1917, della Rivoluzione russa complicò ulteriormente la situazione. Cosma Manera e i prigionieri italiani si ritrovarono improvvisamente catapultati in un paese sconvolto dalla guerra civile, in preda all’anarchia, diviso fra i rivoluzionari bolscevichi e i controrivoluzionari, nel caos prodotto dalle rivolte delle masse contadine povere e provate da anni di guerra. Senza più la possibilità di comunicare con il governo italiano, in una Russia dove gli stranieri non venivano più visti di buon occhio, Cosma Manera – uomo pragmatico, ma anche eclettico e pieno di iniziativa – prese una decisione molto coraggiosa, quasi folle. Corrompendo il capo stazione della città di Celjabinsk, fece stipare i soldati italiani nei convogli di un treno che doveva percorre la famosa Transiberiana. Fu una sorta di odissea: Manera e i soldati italiani riuscirono a sopravvivere al rigido inverno russo – nonostante la maggior parte di loro non avesse i vestiti adeguati – spartendosi qualche tozzo di pane, vivendo in condizioni pietose per più di venti giorni, circondanti solamente dalla bianca steppa della Siberia. Tanto durò il loro viaggio sino alla città di Vladivostock, porto russo sul Mare del Giappone. Da lì si diressero verso la concessione italiana di Tientsin (oggi Tianjin), piccolo avamposto commerciale italiano nell’Estremo Oriente, obiettivo del viaggio pensato da Cosma Manera, da dove riuscì a mettersi in contatto con Roma. Siamo nella primavera del 1918 e le speranze della maggior parte di quei soldati di tornare a casa si infransero davanti all’ordine del governo italiano di rimanere a Tientsin e di sostenere i controrivoluzionari nella guerra civile che ancora infuriava in Russia. La paura delle principali potenze europee e non, era quella che gli ideali della rivoluzione comunista potessero valicare i confini della Russia e attecchire anche altrove. Nominato addetto militare dell’Ambasciata d’Italia a Tokyo ma con residenza a Pechino, Cosma Manera formò i cosiddetti Battaglioni Neri – una mistura di italiani, croati e serbi che si unirono gradualmente a quelli che lasciarono il campo di Kirsanov – inquadrati militarmente come un esercito, con funzioni di polizia sul tratto finale della Transiberiana e come supporto ai controrivoluzionari. Nel frattempo, riuscì a recuperare altri italiani irredenti dispersi in Siberia e, sul finire del 1919, a formare quella che è conosciuta come la Legione Redenta. La fine della Rivoluzione russa, con la vittoria dei bolscevichi di Lenin, segnò la fine delle ostilità anche per Cosma Manera e per molti di quei soldati che furono costretti ad impugnare le armi già nel 1914. Nel febbraio del 1920 partirono da Vladivostok su navi mercantili americane che, percorrendo il mare della Cina, l’Oceano Indiano e il canale di Suez, attraccarono al porto di Trieste.
L’avventura di Cosma Manera, offuscata dal risalto mediatico dell’impresa fiumana di D’Annunzio, venne fatta cadere nel dimenticatoio dai governi italiani dell’immediato primo dopoguerra. L’irredentismo – con l’annessione di Trento, della Venezia-Giulia, di Trieste e dell’Istria – fu un peso che l’Italia si scrollò di dosso ben volentieri e che aveva in dote sin dalla sua unità. Ciò, però, non rese giustizia all’impresa di Cosma Manera che riuscì a far rimpatriare quasi cinquemila soldati, molti dei quali salvati da morte certa. Dopo aver fatto ritorno in patria, continuò la sua vita e la sua carriera militare come se nulla fosse, e anche se l’Italia lo sta riscoprendo solamente in quest’ultimo periodo, per gli irredentisti e per le migliaia di soldati che salvò Cosma Manera rappresentò un eroe, come dimostrarono le numerose rimpatriate che avvennero nel corso degli anni ’20.