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Ravenna sta come stata è molt’anni

di Pierluigi Finolezzi

Quando Dante, colpito dalla condanna dell’esilio, si allontanò dalla sua città natale iniziò per lui un lungo periodo di peregrinazioni tra i principali comuni e nascenti signorie dell’Italia Settentrionale. Mai disperò di far ritorno nella sua Firenze almeno sino a quando, ormai anziano, non vide fallire la discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia e dilagare il morbo dei guelfi neri al di fuori della Toscana. Ogni proposta diplomatica che il regime nero di Firenze avanzò all’Alighieri per rientrare in città rappresentò per il poeta un amarissimo colpo al cuore e ancor più al suo onore di politico e di illustre uomo di lettere, a tal punto che preferì rinunciare per sempre alla sua terra. Dal 1301 Dante fu un artista e un diplomatico itinerante che cercò ristoro e dimorò tra protettori sia guelfi sia ghibellini nei principali centri politici del Nord Italia e dell’Appennino settentrionale. Fu proprio questa lunga stagione di esiliato a portarlo forse per più volte a Ravenna, dove peraltro il Sommo Poeta si spense, secondo i suoi principali commentatori dell’epoca, tra il 13 e 14 settembre del 1321.

Tomba di Dante

Abbandonata la ghibellina Verona degli Scaligeri in circostanze ancora dibattute dagli studiosi, Dante accetta l’invito di Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna e fedelissimo della Chiesa. La città, come già detto forse visitata altre volte dall’Alighieri, appariva in una condizione molto diversa da come era ai tempi dell’imperatore Augusto che nelle sue vicinanze aveva stabilito metà della flotta imperiale, ma era anche molto diversa da quella fastosa capitale che Onorio aveva scelto per governare ciò che restava dell’Impero Romano d’Occidente e dalla quale ressero l’Italia Odoacre e Teodorico prima e gli esarchi bizantini dopo. Gli antichi splendori erano finiti per sempre e il paesaggio ravennate si presentava malsano, povero e per nulla ospitale. A detenere la ricchezza della città era principalmente la Chiesa per mezzo dell’arcivescovo cittadino che controllava due delle abbazie più prospere della regione, San Vitale e Sant’Apollinare in Classe. Altra fonte di rendita era quella che giungeva dai commerci: il comune ravennate poteva contare sulle entrate daziarie che giungevano dalla costa, dalle saline e dalle peschiere, ma anche dal suo entroterra ricco di pascoli e vigneti. Questo vivo contesto socio-economico era, però, controllato principalmente da mercanti veneziani e uomini d’affari fiorentini che spadroneggiavano sulla città come se fosse loro. L’elevato numero di concittadini presenti a Ravenna consentì a Dante di integrarsi velocemente e di tessere una fitta rete di relazioni, di cui sono testimonianza le sue Egloghe. Ma Dante scelse Ravenna anche per altri motivi: Guido da Polenta aveva chiamato Dante nella sua città per affidargli l’incarico di ambasciatore presso il doge di Venezia e questo incarico non dispiacque a Dante che già in passato si era occupato di diplomazia. Il ruolo di ambasciatore garantiva all’Alighieri una certa fonte di retribuzione che per un esiliato non era una garanzia possedere. Inoltre, il protettore gli consentì di riunire e sistemare la sua famiglia a Ravenna, permettendo al poeta di recuperare quella serenità e tranquillità d’animo necessarie per completare la sua opera, la Divina Commedia.

Non tutto l’oro, però, luccica. Qualche decennio prima, Dante da buon difensore della società comunale, era stato molto critico verso le signorie e in Inf. XXVII aveva preso come bersaglio delle sue invettive proprio le città romagnole, dove la tirannia aveva cancellato la libertà e i dittatori avvezzi ad estendere il loro potere con le armi avevano costretto la Romagna a dimenticare cosa fosse la pace. Nel descrivere la situazione politica romagnola a Guido da Montefeltro, Dante trascina per primi nella bufera i da Polenta (Ravenna sta come stata è molt’anni:/l’aguglia da Polenta la si cova…; Inf. XXVII, 40-41) che con il loro potere signorile avevano estinto quell’amore e cortesia che le antiche famiglie nobili di un tempo avevano costruito tanto a fatica, come ricorda il ravennate Guido del Duca in Purg. XIV. Dante, autore di questi versi, ora si ritrova con imbarazzo al servizio di quegli stessi da Polenta tanto biasimati in passato, ma per Guido Novello, anch’egli poeta, forse non importava più di tanto, se poi lo stesso Dante aveva dato lustro alla sua famiglia con uno dei personaggi meglio riusciti della Commedia, sua zia Francesca da Rimini che venne assassinata quando Guido era soltanto un bambino. Si può concludere quindi che tutto questo non influì negativamente sull’arrivo di Dante a Ravenna, ma piuttosto abbia contribuito a facilitare l’integrazione nel nuovo contesto cittadino.

Nelle Egloghe, risalenti a non prima dell’inverno 1319 e trascritte da Boccaccio nel codice Laurenziano XXIX 8, Dante declina la proposta di Giovanni del Virgilio di trasferirsi a Bologna con la promessa di ricevere la corona d’alloro, dichiarando di trovarsi molto bene a Ravenna e di voler essere incoronato solo sulle rive dell’Arno. Qualche anno dopo, ricorrendo a testimonianze di chi aveva conosciuto Dante, Boccaccio svela le vere identità che si celano sotto gli pseudonimi pastorali presenti nell’opera bucolica: notai fiorentini, chierici, medici, membri di famiglie ben consolidate, tutte personalità di alto rango e legate ai da Polenta con le quali l’Alighieri intessette fitte relazioni, a tal punto da riuscire a sistemare i figli Piero e Beatrice, divenuti rispettivamente assegnatario di benefici ecclesiastici e monaca.

Facendo un piccolo passo indietro, sembrerebbe che prima del soggiorno ultimo e definitivo del 1319-1321, Dante sia passato da Ravenna nel 1303 e nel 1310. A testimonianza di ciò rimane Purg. XXVIII dove Dante descrive con precisione la divina foresta spessa e viva dell’Eden ricorrendo a quanto aveva visto, sentito e percepito quando aveva attraversato la pineta in su ‘lito di Chiassi, cioè la pineta di Classe che costeggia l’Adriatico qualche chilometro a sud di Ravenna.  Non sorprende che già a quest’altezza cronologica, nonostante il cupo paesaggio su descritto, i palazzi, i monasteri, le strade e le basiliche con i loro raffinati mosaici di epoca romana e bizantina abbiano impreziosito l’immaginazione dantesca sino poi a diventare il definitivo orizzonte visivo e culturale di Dante negli anni del suo ultimo periodo ravennate.

Seppur ormai vicino ad un’inesorabile dipartita, si può dire che Dante morì per Ravenna. Stando alla testimonianza dello storico Giovanni Villani, la morte del poeta si verificò essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ signori da Polenta con cui dimorava. A causa di una precaria situazione geopolitica tra Ravenna e Venezia sulla quale soffiavano venti di guerra, Guido Novello decise di prendere tempo organizzando un’ambasceria guidata da Dante presso il doge. La spedizione diplomatica non sortì gli effetti sperati dal momento che, secondo il cronista fiorentino Filippo Villani, i Veneziani non all’altezza dell’eloquenza dell’Alighieri gli impedirono di aprire bocca per evitare di essere messi in ridicolo. Fatale gli fu quindi questo viaggio in laguna, durante il quale contrasse una malaria fulminante provocata forse dall’aria poco salubre respirata tra le paludi romagnole. Da quel giorno di settembre del 1321 Ravenna fu in debito con il Sommo Poeta e decise, dopo le esequie celebrate nella Basilica di san Francesco dove Dante era solito andare a pregare, di custodire con gelosia e orgoglio le sue spoglie, opponendosi ad ogni tentativo di traslazione. Il corpo dell’Alighieri fu sepolto sotto un porticato nelle vicinanze della chiesa, nell’attesa della costruzione del degno monumento promessogli da Guido Novello. La caduta del da Polenta qualche mese dopo impedì la realizzazione della tomba, il cui progetto fu ripreso solo nel 1483 dal podestà di Ravenna sotto repubblica veneziana Bernardo Bembo che decise di abbellire il sepolcro con un ritratto in marmo di Dante, oggi collocato nel tempietto neoclassico, meglio conosciuto come Tomba di Dante, edificato solo nel 1780 dall’architetto Camillo Morigia.

Nel 1519 i fiorentini rivendicarono e pretesero il corpo di Dante e papa Leone X de’ Medici che allora controllava Ravenna concesse il permesso. Giunti al sepolcro, però, i fiorentini trovarono l’urna vuota dal momento che, durante la notte, i frati francescani, scavando un buco dall’interno del convento avevano trafugato le ossa, nascondendole poi nel loro vicino convento. Nel 1677 padre Antonio Santi le collocò in una cassetta di legno che nel 1810, quando Napoleone soppresse gli ordini religiosi, fu nuovamente nascosta sotto la soglia di una vecchia porta presso Braccioforte.

Tumulo dove furono nascoste le ossa di Dante durante la Seconda Guerra Mondiale

Nel 1865 la cassetta fu riportata alla luce durante dei lavori e ricollocata nell’urna del tempietto neoclassico, dal quale furono prelevate e sotterrate per un breve periodo tra il 1944-1945 per timore di possibili spoliazioni da parte delle truppe naziste. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale Dante è tornato nella sua tomba, in silenzio e finalmente in serenità dopo aver compiuto molti viaggi reali e immaginari non solo da vivo, ma anche da morto.