Alfonso Martino
“Sii pronto. Le persone si aggrediscono a vicenda e all’improvviso l’unica cosa che sta tra te e la morte sei tu”. Queste sono le parole che rivolge Keller Dover (Hugh Jackman) a suo figlio Ralph dopo una battuta di caccia. Nella sequenza iniziale di Prisoners, film del 2013 diretto da Dennis Villeneuve, viene mostrato il ritratto di un uomo che farebbe di tutto per preservare la sua incolumità e quella del suo nucleo familiare.
La vita dell’uomo, caratterizzata da un’ esistenza comune e priva di macchie, cambierà dopo il rapimento di sua figlia Anna durante il giorno del Ringraziamento, un evento a cui nessuna persona ha assistito. La regia del regista canadese si focalizza su elementi della natura poco dopo l’accaduto, come a voler dimostrare che soltanto la natura, purtroppo muta, è stata partecipe del rapimento.
La pellicola presenta colori cupi, rappresentanti la drammatica vicenda e l’animo del protagonista. Le indagini vengono guidate dal detective Loki, il quale si presenta come figura totalmente opposta a quella di Keller; quest’ultimo è guidato da una forte condotta religiosa e si mostra come una figura forte e decisa, al contrario dell’uomo di legge che invece vive da solo – la macchina da presa mostra il detective mentre cena per conto suo in una tavola calda durante la festività – e affronta il suo lavoro in maniera scrupolosa, ma senza proclami eccessivi.
La messinscena mostra la figura di Keller sgretolarsi con la progressione della vicenda, in cui lo spettatore assiste alla perdita delle certezze messe in mostra nei primi minuti del film. Le indagini inizialmente portano al nome di Alex Jones (Paul Dano), giovane con disabilità che viene prosciolto dopo pochi giorni. Keller, ormai alterato dalla rabbia, non si dà per vinto e decide di dare la caccia al giovane, torturandolo per ottenere risposte. Il luogo in cui porta il ragazzo è una casa abbandonata, trasandata come il suo animo in quel momento, definita attraverso alcune inquadrature dello stabile malmesso. La discesa negli inferi dell’uomo si percepisce durante la tortura, momento in cui Alex, al netto delle prove considerato innocente, viene pestato a sangue e chiuso in bagno, stanza in cui non arriva la luce del sole. Allo stesso modo Keller, pur di ritrovare la sua bambina, ha perso la ragione e non sembra intenzionato a ritrovarla.
Il detective Loki si troverà impegnato dunque su due fronti: quello dell’indagine e quello di Keller, che non ha alcuna intenzione di collaborare con le forze dell’ordine. Lo stesso Loki inizia a sentire la pressione del caso, che diventa sempre più ingarbugliato, includendo persone dello stesso paese di provincia considerate insospettabili. La pressione viene mostrata dal regista durante gli interrogatori, in cui il detective agisce inizialmente in maniera rispettosa e professionale, per poi successivamente perdere il controllo al punto da mettere le mani addosso a individui potenzialmente innocenti. I due uomini giungono alla stessa conclusione ma ci arrivano in modi diversi: Keller tramite la violenza, che sfocia in pentimento attraverso la fede; Loki grazie all’etica lavorativa che lo contraddistingue, nonostante gli scivoloni citati poco prima.
Lo scopo di Villeneuve è quello di mostrare fin dove può arrivare a spingersi l’uomo medio, prigioniero in un labirinto contraddistinto dalle tradizioni e dalla religione. Su quest’ultima in particolare alcuni individui depongono le loro intere speranze, provando rabbia e frustrazione quando quest’ultima non riesce ad esaudirle. La sicurezza che fanno trasparire è tutta una facciata, per nascondere al resto della comunità i loro dubbi e incertezze.