35 millimetri

Parasite, di Bong Joon-ho

Alfonso Martino

La società orientale è strutturata in maniera diversa rispetto a quella occidentale.

Si potrebbe rappresentare come una gigantesca piramide, in cui chi è in cima vivrà in una condizione privilegiata per il resto dei suoi giorni, al contrario di coloro che appartengono al ceto sociale più basso, destinati a rimanere lì e a vivere in maniera passiva senza alcuna possibilità di scalare questa piramide e di avvicinarsi al ceto ricco. La tematica sociale viene già affrontata da Bong Joon-ho in Snowpiercer (con Tilda Swinton) e ripresa in questa pellicola, che è valsa al regista sudcoreano la palma d’oro a Cannes per il miglior film e svariate nominations ai Golden Globes, in attesa dei premi dell’Academy. Parasite vede contrapposte due famiglie: una più povera, la famiglia Kim, e una più ricca, la famiglia Park, che sembrano destinate a non incontrarsi mai ma che entreranno in contatto grazie a una catena di referenze, unico modo di oltrepassare questa cupola di vetro.

La macchina da presa mette a confronto i due nuclei familiari attraverso alcuni dettagli: la fotografia nella casa dei Kim è reale, accesa, mostra le difficoltà di questa famiglia ad arrivare a fine mese, questa famiglia che vive in un seminterrato campando di espedienti; al contrario, quando la trama si concentra a casa Park, la fotografia diventa più fredda e asettica, come a voler mostrare la perfezione di questa famiglia a cui non manca il benessere economico ma l’amore tra i propri membri. Una cupola di vetro, appunto, dove tutto è perfetto (ma fittizio) e basta un corpo estraneo per distruggerla.

Durante la visione si alternano diversi registri: si passa dal comico al drammatico, con punte di suspense dovute ai piani sequenza del regista che rendono queste scene particolarmente claustrofobiche.

Protagonista simbolico nella denuncia di Bong Joon-ho è l’odore, ulteriore differenza tra le due classi sociali, che viene rimarcata dal capofamiglia del nucleo Park nei confronti della famiglia Kim, paragonati a uno straccio vecchio.

Com’è tradizione nella cultura asiatica, i simboli acquisiscono un ruolo importante: la finestra è lo specchio sul mondo per i Kim, che passano da una vista che affaccia al livello di una strada del quartiere popolare in cui abitano, a un giardino perfettamente curato e silenzioso di una casa costruita da un importante architetto; il codice Morse è un linguaggio conosciuto da pochissimi personaggi in scena e rappresenta l’impossibilità di comunicare tra i due ceti; la pietra, regalata da un amico del figlio dei Kim, acquisisce un’aura mistica nel corso della pellicola, che guida il ragazzo verso azioni chiave per lo snodo narrativo del film.

Lo spettatore non può non parteggiare per la famiglia più povera, definita parassita nel titolo e che ha come unica colpa quella di voler sopravvivere con ogni mezzo in una società classista e chiusa.

Il passaparola che ha portato la pellicola a questo successo di pubblico è giustificato, dimostrando che i film con sottotesti importanti possono essere recepiti in maniera positiva e portare guadagno agli esercenti, che devono scommettere di più su progetti di questo tipo e educare il pubblico affinché opere di questo genere siano la normalità nelle nostre sale.