Alfonso Martino
Negli ultimi dieci anni il filone dei revenge movie è tornato in auge grazie alla saga di Taken, che vede protagonista Liam Neeson, e la trilogia di John Wick, con Keanu Reeves mattatore assoluto. Questi due progetti hanno una visione diversa per quel che riguarda le scene d’azione(il primo le rende in maniera banale, mentre il secondo ne fa il suo punto di forza, esaltando i movimenti di camera), ma entrambi condividono una sceneggiatura banale e prevedibile, che non giustifica l’enorme quantità di azione sullo schermo.
Il tema della vendetta è stato trattato dal regista sudcoreano Park Chan- Wook nel 2003 con Old Boy, pellicola con cui ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al festival di Cannes nel 2004. Il film segue le vicende di Dae-su(traducibile come “colui che va d’accordo con chiunque”), un uomo qualunque con problemi d’alcolismo, che viene rapito e tenuto in ostaggio per quindici anni in una camera d’albergo.
La regia si concentra sullo spazio angusto vissuto dal protagonista, caratterizzato da un colore spento e scialbo, tipico di un luogo di transizione qual è una stanza d’albergo e che diventerà invece una residenza obbligata. In questo lasso di tempo viene nutrito quotidianamente con lo stesso pasto e decide di dedicarsi alla shadow boxing e alla scrittura,per riempire le giornate vuote. La sua routine viene interrotta da un notiziario in televisione, unico tramite tra lui e il mondo reale, che annuncia la scomparsa della figlia e la morte della moglie, di cui lui risulta il principale indiziato a causa della sua dipendenza. All’improvviso, viene narcotizzato e rinchiuso in una valigia, da cui riuscirà ad uscire e a ritrovare la libertà. La prigionia cambia inevitabilmente il carattere di Dae-su, la cui affabilità verrà sostituita dalla rabbia e dalla voglia di sapere la verità sul suo rapimento.
Il protagonista porta avanti la sua ricerca col timore costante di essere arrestato dalla polizia per un delitto che non ha commesso; un sentore che viene trasmesso da Park Chan- Wook attraverso la sua regia claustrofobica anche in sequenze ad ampio respiro, quasi ad indicare che Dae-su sia uscito da una gabbia più piccola per entrare in una più grande. La scena che resta più impressa nella mente dello spettatore riguarda uno scontro tra il protagonista e un gruppo di uomini al servizio del rapitore, girata in piano sequenza e citata negli ultimi anni anche in un episodio della serie Netflix Daredevil, utile a dimostrare la disparità numerica e lo spazio ristretto in cui avviene il conflitto. Le sequenze d’azione sono caratterizzate da scene che non risparmiano dettagli per tutta la durata del film, lasciando nello spettatore il sentimento di brutalità che vuole raccontare il regista, non tralasciando alcune immagini splatter.
Andando avanti con la pellicola, le motivazioni del rapitore vengono a galla e lo spettatore non potrà che provare stupore di fronte ad una sceneggiatura tanto intricata, che caratterizza in maniera dettagliata sia lo sfortunato protagonista che il suo rapitore, per cui si prova prima lo stesso odio covato da Dae-su e infine una leggera empatia. Park Chan- Wook inserisce all’interno del film alcuni rimandi alla tragedia – in particolare all’Edipo Re – e definisce la violenza come forza motrice che anima la società, in cui un sentimento puro come l’amore viene visto con accezione negativa, lacerato da un mostro carico di rabbia e vendetta.
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