di Enrico Molle
Avevo poco meno di sei anni e frequentavo ancora la scuola materna quando per la prima volta presi in mano un libro di Gianni Rodari. Non ricordo quale fosse tra i tanti della sua sterminata produzione letteraria, né riesco a immaginare dove possa essere conservato ora, ma ricordo perfettamente, ancora oggi, che il nome di quell’autore fu il primo che imparai a memoria. Si trattava di un libro di filastrocche, uno dei tanti che vengono regalati ai bambini durante l’infanzia, eppure passavo ore e ore a sfogliarlo pregando mia madre di leggermi qualcosa, senza stancarmi mai perché incuriosito da quelle storie raccontate con parole semplici, ma che celavano concetti per me difficili all’epoca.
Più tardi negli anni, quando frequentavo la scuola elementare, fui sorpreso nel ritrovare quel nome sotto innumerevoli pagine dei libri di testo. Le prime volte, quando leggevo Gianni Rodari alla fine di un racconto o una poesia, correvo immediatamente dai miei compagni per avvisarli orgogliosamente che io conoscevo quello scrittore e che avevo persino un suo libro. Tuttavia il mio entusiasmo durò poco perché ben presto scoprii che Gianni Rodari lo conoscevano tutti, anche quei ragazzini che della scuola non ne volevano sapere niente: persino loro avevano un suo libro.
In quegli anni, l’autore di libri per l’infanzia probabilmente più importante dell’intera letteratura italiana, già non c’era più, ma io non lo sapevo e nel mio immaginario era come se fosse un amico, ero convinto di conoscere il suo volto e leggendo i suoi scritti potevo immaginarne la voce.
Crescendo, pensai inizialmente che tutto ciò fosse dovuto alla mia precoce passione per la letteratura, ma in verità capii che per generazioni intere il processo era stato più o meno simile. Ancora oggi mi capita di sentire alunni di scuole elementari e medie parlare di lui con tono di ammirazione e rispetto, li sento dire che si commuovono leggendo alcuni suoi passi, e sono giunto alla conclusione che una tale magia è possibile perché Rodari ha riposto tutta la sua fiducia nei bambini, parlando loro dei valori universali e dell’umanità, affrontando quasi sempre tematiche adulte, con estrema dolcezza e serenità. Anche quando i toni della sua scrittura si fanno più malinconici o accennano all’incertezza dell’esistenza, l’autore riesce a porsi come figura rassicurante: è come se ci stesse dicendo che è tutto un gioco, di fatto anche la vita lo è, e per questo va vissuta con la leggerezza e lo spirito di un bambino. Ciò, tra l’altro, non si trasforma mai in un effimero messaggio di spensieratezza fine a se stessa o priva di responsabilità, al contrario è come se l’autore si rivolgesse a degli adulti, tracciando le linee di una pedagogia e di una poetica che, fuggendo da ogni pedantismo, cerca di insegnarci la vita.
Succede allora che lo spaventapasseri della poesia Chi è uomo, che mette paura ai piccoli volatili che lo credono umano, si rivela non esserlo perché “non è uomo chi non lavora”. In Filastrocca Matta, mentre “il matto si affanna per diventare un mattone, il vero matto è colui che vuole fare la guerra”, e in Tragedia di una virgola l’errore di uno scolaro, che mette una virgola al posto di un punto, condanna la malcapitata “a reggere il peso di cento paroloni”, aprendo al tema delle responsabilità, talvolta così pesanti da portare allo stremo: la virgola muore e viene seppellita “sotto una croce della matita blu del maestro”.
Nei momenti più alti della sua lirica, Rodari stravolge le convenzioni, così come accade in La cicala e la formica, con l’autore che si schiera dalla parte della cicala perché “il più bel canto non vende… regala”, celebrando il valore assoluto dell’arte. Altre volte introduce tematiche delicate e talvolta scomode, come ne L’errore di un pulcino, filastrocca che affronta la questione del non accettarsi e lo fa attraverso un pulcino che desidera essere altro, e che specchiandosi in una pozza d’acqua limpida, non contento del risultato, decide di intorbidirla, simboleggiando l’arroganza e la superbia dei singoli che contaminano e travolgono le cose più pure.
Questi sono solo alcuni esempi, ma se ne possono trovare moltissimi altri nella vasta produzione dello scrittore di Omegna, che ci aiutano a capire con efficacia che l’opera di Rodari non può essere esclusivamente inquadrata all’interno dell’etichetta di una letteratura per l’infanzia, ma deve essere allargata a una più ampia considerazione e inserita nell’ottica della letteratura stessa, nella sua più pura e autentica accezione.
All’epoca della scomparsa dell’autore, non tutti i suoi contemporanei riuscirono a capire la forte carica innovativa ed emozionale dei suoi scritti, convinti che la sua eredità fosse impalpabile, destinata a scomparire in considerazione del fatto che ogni bambino, prima o poi, diventa adulto e quindi di Rodari non dovrebbe averne più bisogno. A molti è sfuggito come questo autore, rivolgendosi ai giovani in modo sincero, limpido e trasparente, sia riuscito a rimanere nelle loro coscienze e, quindi, la comunicazione non è necessariamente cessata con la maturità.
La conferma di questa straordinaria capacità divulgativa è facilmente rintracciabile proprio nelle opere di Rodari, che da decenni raccontano di una realtà sempre attuale e descrivono lucidamente sentimenti ancora veri, che nella loro geniale semplicità ci fanno riconoscere, a prescindere dall’età. Le sue storie sono moderne e incastonate in una forma che possiamo definire «classica» perché è universale, eterna e perfetta.
Rodari ha usato l’immaginazione per forzare la superficie della realtà e sondarne le possibilità, muovendosi attraverso l’uso rivoluzionario della parola, il più grande strumento di liberazione che gli umani abbiano mai inventato. E questo uso dialettico dell’immaginazione si è posto come guida per i suoi lettori nel passaggio da un’accettazione passiva del mondo, alla capacità di criticarlo, quindi, all’impegno per trasformarlo.
Oggi, a cento anni dalla nascita dell’autore e a quaranta della sua morte, possiamo affermare con estrema serenità che Gianni Rodari si pone tra i grandi intellettuali del Novecento ai quali dobbiamo qualcosa, probabilmente molto di più rispetto ad altri maggiormente osannati dalla critica e dagli accademici.