35 millimetri

Mulholland Drive – Avere vent’anni

Gabriele De Nola

Mystery is the essential element to every work of art
Luis Buñel

Ci sono alcuni film concepiti come tali che assumono col tempo uno status capace di trascendere la settima arte. Pellicole da vedere come delle opere, da restituire in eredità alle prossime generazioni curiose di sapere cosa la mente umana, motore meraviglioso e terribile, è capace di concepire. Recensire Mulholland Drive è qualcosa di arduo, sarebbe come ridurre gli affreschi della Cappella Sistina o la magnificenza di un David a mera descrizione riguardo tecniche di pittura o sulla precisione dello scalpello. A rendere il tutto più complicato ci pensa la critica: la LAFCA (Los Angeles Film Critics Association) lo mette al primo posto tra i migliori film del primo decennio del 2000, per la BBC Culture è il più importante del 21° secolo.  

Come si può pensare di analizzare Mulholland Drive in maniera normale? Persino la trama non garantisce certezze a cui aggrapparsi poiché, tolto un flebile filo conduttore che avvinghia la protagonista Betty (una strepitosa Naomi Watts al debutto sul grande schermo) alla ricerca di informazioni sull’identità di una donna amnesica di nome Rita (Laura Harrings), in realtà è tutto quello che accade intorno a doverci interessare. Quel contorno che assume forme molteplici da spettatore in spettatore, mai come in questo caso legato alla soggettività delle proprie sensazioni ed emozioni. Un contorno terrificante e spiacevole, quello che spinge ad affrontare di petto le paure più recondite dell’animo umano, una seduta psicanalitica di matrice junghiana: questo è ciò che fa David Lynch nel punto più alto di una filmografia mai scesa a compromessi con il lato “commerciale” di Hollywood.

Ed è proprio quella sezione d’industria cinematografica che Lynch prende di mira e decide di attaccare a viso aperto. Un mondo che l’ha più volte tagliato fuori per via di un’idea di cinema non aperta e pop come dovrebbe: il film in questione era stato concepito come episodio pilota di una serie per la ABC, scartato in corso d’opera per timori ed incertezze della produzione. La Studio Canal fornisce asilo al regista e permette di completare il girato dando vita poi al lungometraggio che vincerà Il Leone d’Oro per la miglior regia. Mulholland Drive è per Lynch ciò che Once Upon a Time in Hollywood è per Tarantino: una personale dichiarazione d’amore per il cinema. In questo caso, una dichiarazione di ciò che dovrebbe essere la settima arte. Della sua funzione salvifica nei confronti di una donna mossa dall’ardente vocazione di fare l’attrice che sceglie di trasferirsi a Los Angeles per coronare quel desiderio, innamorandosi di un regista di successo (e non solo), prendendo parte ai set più blasonati. Una donna che vive il suo sogno.

Un sogno, appunto. Durante la prima ora di visione l’ascesa di Betty ci sembrerà fin troppo strana e grottesca, priva di difficoltà, con elementi fastidiosi e fuori luogo da soap opera. L’unica macchia, il reale fastidio avvertito da noi spettatori è dato dalla presenza di Rita: la ricerca della sua identità è il neo che impedisce alla protagonista di essere felice ed in quel momento la componente onirica squarcia il velo che la tiene separata dalla realtà. Cinema, realtà e finzione si fondono nella scena del Club Silencio dove “è tutto registrato, è tutto un nastro”. Le due assistono ad esibizioni canore e musicali irrazionali, illusorie ed effimere. Quello che succede su schermo affascina e terrorizza, la stranezza lascia spazio ad una timida convinzione allo spettatore. Le pareti del sogno si sgretolano ed il vero film può cominciare.

Il cinema di Lynch vive di sensazioni e soggettività, quesiti senza risposta e momenti nonsense al quale non deve necessariamente seguire un perché. Questo film si può considerare come la summa di tutti i topos preferiti dal regista americano: il tema del doppelgänger, quella versione di sé stessi opposta e repressa in contrapposizione alla vera identità dell’io; il nastro di Mobius, l’eterno ritorno, il concetto di ciclicità di nietzschana memoria; lo spazio ed il tempo indefiniti e sovrapposti, avversi ed incomprensibili. E poi il sovrannaturale, personaggi da codificare, caratterizzazione e costumi mai lasciati al caso, la colonna sonora immersiva e toccante di Angelo Badalamenti. Mulholland Drive è la definizione di film da vedere perché impossibile da spiegare, un’esperienza da dover fare se si ama il cinema senza troppe (a volte davvero banali) pretese su trama ed elementi di narrazione.

La nostra è una generazione cresciuta e viziata da Nolan e le cervellotiche congetture da post sala, anche quando non devono esserci. Incapaci di guardare un film senza la spiegazione seguita di pari passo, annoiati e passivi quando si tratta di lasciarci andare in un’esperienza perché privi della consequenziale “normalità” che un’opera cinematografica può permettersi di non possedere. Mulholland Drive compie vent’anni, la stessa età che avevo durante la mia prima visione. Questa piccola parentesi soggettiva, mai così azzeccata parlando di questa pellicola, per scrivere a chiare lettere che David Lynch mi ha cambiato la vita ed il mio modo di vedere e “sentire” un film. Mi ha regalato un regista capace di coniugare ogni mia passione ed influenza, restituendomi orrore ed inquietudine necessari per conoscere davvero sé stessi. Ha aperto una scatola di colore blu dove l’illusione ed il tentativo di emulare la realtà a proprio piacimento sono il vero significato della parola Cinema. A volte non servono troppe spiegazioni, a volte basta il silenzio.