Francesco Petrella
Brevi cenni biografici e discografici: Mouse on Mars è un duo tedesco di musica elettronica/sperimentale, composto da Jan St. Werner ed Andi Toma; il loro debutto risale al 1994, con Vulvaland, il 23 aprile di quest’anno ricorreranno i 20 anni da Idiology e il 26 febbraio è uscito il loro sedicesimo album AAI, [=Anarchic Artificial Intelligence].
Mentre divago nell’ennesimo ascolto del disco trovo un articolo, steso da Alessandro Longo per Repubblica, che scrive della pubblicazione della bozza che la Commissione europea ha da poco presentato sulla regolamentazione in termini di uso dell’AI, intelligenza artificiale. Cito l’articolo per evidenziare il breve tempo che ci separa dall’attuazione di varie forme di AI, su ampia scala, in modi definitivamente pervasivi e radicali, – radici di cui ci accorgeremo più tardi, quando staranno producendo frutti, dato che ora si sta burocratizzando e dunque normalizzando l’immissione degli utilizzi dello strumento. Ad ogni modo, Longo delinea anche una parziale retrospettiva sul già consolidato impiego dell’AI, a vari livelli, in ambiti lavorativi eterogenei.
Mi servo del commento di Longo per evidenziare l’anacronismo del pensiero che, univocamente, porrebbe l’intelligenza artificiale come topos limitato alla narrazione fantascientifica; ne consegue l’urgenza e la credibilità di un disco come AAI e, soprattutto, l’impellenza delle domande che l’opera solleva.
Parallelamente e all’interno del disco, corredo e contenuto, v’è un breve saggio di Louis Chude-Sokei, professore universitario e direttore dell’African American studies program. Corredo in quanto saggio auto-concludentesi e pubblicato per intero sul sito dei MOM, contenuto in quanto ripreso, re-citato, frammentato e adoperato lungo tutte le tracce. La modalità sonora di riutilizzo del saggio è il fulcro del disco e della sperimentazione attuale del duo. La compagnia, specializzata in AI, dei Birds On Mars, insieme con Ranny Keddo e Derrek Kindle, [programmatori di Soundcloud], hanno sviluppato un software di AI capace di simulare la voce umana e, utilizzato a mo’ di sintetizzatore, di modellare tono, inflessione, velocità al fine di garantire un’emulazione quasi perfetta di qualsiasi suono umano. Affatto, i recitativi che fanno da trafiletti nei brani, emulanti la voce di Chude-Sokei, non sono altro che le modulazioni di questa intelligenza artificiale. Il gioco, qui, si fa duplice, dove l’AI, così come il contributo dell’accademico, è non solo struttura informante ma anche contenuto, essendo AAI un concept album, che dispiega la narrazione dalla genesi di una macchina intelligente sino al suo sviluppo di una coscienza di sé, di un riconoscimento di esistenza e di un reclamo di diritti.
Al di là della dimensione meta-narrativa, è l’essai, destrutturato e ripetuto nel susseguirsi dei brani, che spinge nel porre domande vecchie e nuove.
«Memory became more valuable too because machines were so capable of it. Their appetite for it was matched by the human taste for forgetting». Secondo questa affermazione, la memoria umana, tramandata all’AI, acquisirebbe più valore laddove le macchine permetterebbero di conservare ciò che l’uomo deve, biologicamente, perdere. Oltre a interrogarsi sull’affermazione in sé, sarebbe anche da chiedersi: data l’infinità capacità d’immagazzinamento, senz’altro utile, e la conseguente probabilità di una sterminata conoscenza a disposizione di chiunque, [ovvero la massa], il valore è inscindibile dalla quantità? La qualità, ammesso che esista, in che rapporto rimane con i mezzi utilizzati? E ancora: un granaio infinito di informazioni non crea la profonda probabilità di eliminare l’atto del tramandare, sopperendo all’eliminazione con un surrogato, un idolo del tramandamento? In ultimo: questa infinità a cosa serve, esattamente, essendo non infinità di soluzione ma infinità di mezzi? Quelle che pongo non sono domande retoriche, non ne conosco la risposta ma credo fermamente che indichino delle vie percorribili. Non nego, di nuovo, l’utilità dell’operazione di immagazzinamento e di cessione di sapere a tutti; qualche dubbio sorge nel vedere questo processo non così radicale né così differente, paradossalmente, da quello che informava le istanze del primo capitalismo.
Ancora più interessante, Chude-Sokei, quando scrive «[…] new life always announces itself through sound». In questo passo, l’accademico reclama per le macchine il diritto a dichiararle viventi, avendo imparato l’empatia e l’errore, [e per questo: l’anarchia, del titolo, che sarebbe solo l’assenza della perfezione pretesa dall’artificiale], e dunque profilandosi come umane. Lo strumento che diviene vivo e si proclama tale annunciandosi sul piano sonoro. Righe che riportano ad altre, di Roland Barthes, dove il critico francese legava la nascita della scrittura, non alla voce ma al ritmo cadenzato della pietra che scalfiva il legno, il ritmo lavorativo. Da questa prospettiva, il suono che annuncia nuova vita dovrebbe aprire una fenditura, un solco ma forse, – penso alle manopole delle macchine analogiche -, è più un vortice, una spirale. In questo vorticare frenetico, lo stesso che segnano le allucinate produzioni dei Mouse on Mars, non rimangono che domande e frammenti da ricomporre, – il che sarebbe impossibile se fossero infiniti. Il disco pone anche altri quesiti, non meno importanti, ho dovuto accantonarli, per quanto non sia da escludere una riflessione sull’equivalenza rapportuale tra naturalità e artificialità.
Però mi fermo e lascio correre il disco.