Daniela Bellisario
Milano è quella che è nota a tutti come la capitale italiana della moda, il cuore pulsante dell’economia nazionale. La città più cosmopolita e all’avanguardia dell’intera penisola, quella di cui si sente sempre parlare nei telegiornali, dove il cielo si dice sia perennemente grigio e dove alla gente piace andare a fare “ape” (aperitivo, N.d.R.). Non solo: basti pensare che è il centro ospitante eventi di portata internazionale come la Fashion Week, che ha aperto le porte all’Expo 2015, che è la sede della Borsa, e mille altre cose. Ma per me Milano non è solo questo. Milano è un vero e proprio treno in corsa che ti catapulta nella sua frenesia quotidiana, nella sua dinamicità senza pari e non lascia spazio alle mezze misure. Credo sia questo il motivo per il quale, molto semplicemente, si fa amare alla follia oppure si fa odiare a tal punto da alimentare il desiderio di scappare.
Quando ho messo piede a Milano per la prima volta, nel 2017, la prima cosa a cui ho pensato è stata: “Milano non si ferma mai!”, e ne ho avuto immediata conferma: mezzi di trasporto super efficienti, un viavai continuo di gente, un ventaglio infinito di possibilità. Ed è stato proprio tutto questo che mi ha colpita, soprattutto in quanto ragazza proveniente da una piccola e limitante realtà di provincia. Perché Milano ha l’incredibile potere di farti credere di avere il mondo in mano, che puoi fare tutto quello che non credevi nemmeno lontanamente essere realizzabile. E, ancor di più, che è giusto sognare di avere un futuro dignitoso.
Spinta anche dall’entusiasmo che la breve esperienza da turista mi aveva lasciato, esattamente un anno dopo ho deciso di trasferirmi a Milano per proseguire i miei studi. Vivendoci stabilmente, ho potuto dare una forma più definita alle mie percezioni iniziali: è senza dubbio una macchina efficiente ed instancabile. Nulla può scalfirla, corre veloce. Fino a che, qualche mese fa, l’inaspettato arrivo di un virus dapprima sconosciuto ha fatto sì che quest’impeccabile meccanismo s’inceppasse irreversibilmente.
Il COVID-19 ha messo in ginocchio l’Italia, in particolar modo la Lombardia: contagi che schizzano alle stelle, troppe persone che affollano i reparti di terapia intensiva negli ospedali lombardi al punto che il sistema sanitario comincia ad arrancare. Poi il lockdown totale. I contraccolpi sull’economia sono notevoli. Si sente parlare di un crollo della Borsa senza precedenti. Milano, per la prima volta, si trova costretta a fermarsi, a mettersi in pausa. A non vedere la gente gremire i suoi locali, passeggiare per le sue strade, contribuire alla creazione del caos che l’ha sempre contraddistinta. In poco tempo, Milano diventa irriconoscibile, una città fantasma. Si svuota e si azzittisce. Come tanti altri studenti fuorisede, io sono rimasta bloccata qui, nella città che mi sono scelta e a cui ho affidato i miei progetti futuri, la stessa che sapevo essere iperattiva e rumorosa. Non ho potuto che assistere, inerme, al cambiamento enorme che stava vivendo contro la sua volontà, nella sua lotta contro questo nemico invisibile.
Ho trascorso qui la quarantena, provando un grande senso di impotenza e di tristezza. Non avevo mai visto così tanta desolazione. Vedere sui social foto e video dei luoghi che frequentavo abitualmente così privi di vita è stato quasi opprimente. Come può una città come Milano essersi bloccata in questo modo? Questa è stata una delle domande che mi sono posta più spesso, così come mi sono chiesta tante volte perché dovesse accadere tutto questo. Ho pensato a tutti i piani andati a monte: i miei, quelli dei miei cari, di tutti. Sono stata in pena per mia mamma, per la sua più che legittima preoccupazione di genitore che ha la propria figlia lontana e per di più nella fossa dei serpenti, dove il nemico è più spietato. Tutto ciò che prima era considerato normale e scontato ci è stato privato per due mesi. Due mesi in cui non abbiamo sentito altro che “Restate a casa” e siamo diventati tutti improvvisamente responsabili della vita degli altri. Due mesi in cui l’incertezza e il panico hanno regnato sovrani e abbiamo rinunciato alla nostra quotidianità. Ho risentito del bombardamento mediatico senza sosta al quale siamo stati sottoposti, seguendo ansiosamente l’andamento, sempre più preoccupante, della curva dei contagi e dei decessi.
Mi sono trovata a fare la spesa al supermercato dovendo rispettare una fila all’esterno e una distanza di sicurezza e abituarmi ad indossare una mascherina. Ad essere onesti, è una cosa con cui tutt’oggi non ho ancora familiarizzato completamente. Faccio ancora fatica a pensare che sicuramente per un altro po’ di tempo sarà ancora così, che dovrò incrociare persone col viso in parte coperto. All’inizio per me è stato surreale, così come lo è stato rinunciare alla mia routine di studentessa universitaria e a quella di giovane ragazza in una città piena di stimoli e opportunità di svago. Tutto è rimasto in sospeso, come se fosse cristallizzato. Mi sono chiesta tante volte quanto pesanti sarebbero stati gli effetti di una pandemia di tale portata e quanto lenta sarebbe stata la ripresa.
Nel passaggio alla delicata fase 2, Milano ha ripreso a camminare a passo lento: era consentito spostarsi in metropolitana, nel rispetto delle misure di distanziamento sociale; solo alcune attività commerciali avevano ripreso a lavorare; ma il fardello delle conseguenze di uno stallo forzato durato troppo e il distintivo della città col più alto numero di contagi in Italia era ancora un’ombra oscura per il dinamico capoluogo lombardo.
Oggi, la situazione pare essere migliorata. I contagi e i decessi sono diminuiti considerevolmente e sembra essere tornati ad una “pseudo-normalità”: si fa tutto come prima, con la differenza che bisogna entrare nei negozi muniti di mascherina e sanificando le mani all’ingresso. Gli accessi nei luoghi pubblici sono limitati per evitare, ove possibile, gli assembramenti.
Tuttavia, Milano è di nuovo immersa nel suo famigerato solito caos, e a tratti pare aver dimenticato i suoi mesi di buio. C’è chi dice che il virus è stato sconfitto; c’è chi invece non ha una visione così ottimistica della faccenda. Si vocifera, infatti, a proposito di una nuova ondata di contagi in autunno, che potrebbe portare ad una nuova regressione per l’Italia. Ciò significa che non è ammesso neanche il più piccolo passo falso da parte nostra e che siamo comunque sul filo del rasoio. Sono sicura che sentiremo parlare di COVID-19 ancora per molto e che il processo che condurrà questo virus a cadere nel dimenticatoio sarà lungo e tortuoso. Balzac diceva che “ogni potere umano è composto di tempo e di pazienza”. Io voglio ben sperare che il tempo e la pazienza saranno dalla nostra parte.