Alfonso Martino
David Fincher è un regista che non ha bisogno di presentazioni: tra le pellicole da lui girate ricordiamo The Social Network, Seven e Zodiac, capaci di far entrare lo spettatore nei meccanismi della trama grazie a personaggi tridimensionali e a una regia ricercata e mai fine a se stessa.
Il suo ultimo film, Mank, è stato prodotto da Netflix, il quale continua il suo percorso di avvicinamento di grandi registi dopo Scorsese, Cuaron e Spike Lee. La pellicola ha avuto una gestazione difficile, dal momento che la sceneggiatura, scritta dal padre del regista, è basata sulla vita dello sceneggiatore Herman Mankiewicz (Gary Oldman), autore del copione di Quarto Potere di Orson Welles e osservatore cinico dell’industria cinematografica dei suoi tempi. Una premessa non delle più immediate per il grande pubblico.
Dal punto di vista tecnico, Fincher ricrea in maniera perfetta il contesto storico e l’ambientazione hollywoodiana degli anni 30’, con riferimenti specifici alla crisi economica del 29’ e all’avvento del nazismo, agli studi di produzione come la Paramount o la Metro Godwin Mayer e attori/attrici, come la Marion Davies interpretata da Amanda Seyfried.
I riferimenti all’opera di Welles sono molteplici: l’utilizzo del bianco e nero, le finte bruciature di pellicola, il suono ovattato, le inquadrature fisse e la struttura confusionaria della pellicola, che alterna la trama principale con flashback che mostrano la crisi dall’industria cinematografica – sempre più vicina ad approcciarsi al sonoro – e la falsità dei grandi produttori, dimostrata nella sequenza che vede Mayer confrontarsi con i suoi dipendenti, chiedendo loro di dimezzarsi lo stipendio per due mesi; la sequenza è osservata dal protagonista dalle retrovie, il quale ammette a un suo collega che: <<Non è neanche la cosa peggiore che ho visto fare negli ultimi anni>>.
Fincher ha curato in maniera così maniacale il lato tecnico, al punto da tenere in poca considerazione uno dei suoi punti di forza: la caratterizzazione dei personaggi; lo spettatore non riesce ad entrare in empatia con lo sceneggiatore dedito alle scommesse, nonostante l’interpretazione di Oldman.
L’amore dimostrato da Mank nei confronti del cinema non riesce a raggiungere lo spettatore, così come non riesce ad essere interessato alle vicende degli altri personaggi, i quali sembrano dei fili dediti a muovere quella gigantesca macchina chiamata Hollywood.
Ciò che porta lo spettatore ad andare in fondo alla visione di questo film, oltre il già citato lato tecnico, è sicuramente lo scontro tra Mank e Welles, inizialmente poco presente e che acquisisce importanza soprattutto nella parte finale della pellicola, alimentando il mito della paternità della sceneggiatura di Quarto Potere.
Il regista si schiera in una maniera precisa, portando a compimento uno dei suoi sogni nel cassetto: omaggiare la sceneggiatura del padre e allo stesso tempo una delle pellicole più famose della storia del cinema, uscita nel 1941 e capace di fare ancora discutere.