di Lorenzo Olivieri
“Lei sa quale è l’invisibile filo rosso che unisce tutte queste figure che sono le più importanti nei loro rispettivi campi? Nessuno di loro si fa vedere. Nessuno di loro si lascia fotografare”, sostiene Pio XIII in The Young Pope. Nemmeno il creatore di una delle ultime serie di Netflix si fa vedere, anche se uno degli episodi della serie ha raggiunto i due milioni di visualizzazioni. E non si fa vedere non per una molto umana timidezza per i riflettori, ma perché non può, perché la serie “Netflix by bots” è stata scritta da un computer.
Ad un software di scrittura, dice il curatore della serie, è stato assegnato come compito di studiare 400.000 ore di sceneggiature di film horror e poi di creare come esame finale un film inedito. L’episodio, che si intitola “Mr Puzzles ti vuole meno vivo” dura circa cinque minuti, presenta una trama riconoscibile per chiunque abbia visto almeno un film horror e sembra essere basato su una versione onirica di Saw l’Enigmista, che l’AI (Artificial Intelligence) sembra aver apprezzato più degli altri film. Nonostante cerchi di mantenere una certa coerenza nella trama, finisce per includere grandi momenti surreali come balene che cadono dal tetto e si rivelano poliziotti sotto copertura e l’omicidio del collega della protagonista, sulla cui morte la protagonista commenterà “non fa niente; lavoro in una grande azienda”. Il risultato è che seppur riusciamo a seguire un’idea di narrazione, la storia finisce per assomigliare a quei sogni in cui tutto sembra logico fino a che non ti svegli e poi più ci pensi più ti rendi conto che erano completamente privi di senso.
La serie, prodotta dalla divisione di Netflix dedicata alla commedia, contiene 7 episodi tra cui un documentario, una commedia romantica, due film di Natale e uno spettacolo di stand up comedy, e ogni episodio è caratterizzato esattamente come ci immaginiamo un computer possa scrivere un film: un’incomprensione generale dell’AI su come funzionano le più basilari emozioni umane. Il senso generale di ribaltamento della realtà finisce per rendere i film involontariamente demenziali.
Forse troppo divertenti. Forse questo è esattamente quello che mi aspetterei da un computer che scrive film.
In effetti, dietro l’AI si cela il vero creatore della serie, Keaton Patty, scrittore comico che non è nuovo a questo tipo di esperimenti sui media e ha anche scritto un libro su un film “scritto” da bot. Molti sono caduti in questo scherzo ben congeniato e hanno creduto che Netflix by Bots fosse stato scritto interamente da un robot appassionato di cinema.
Allora quanto c’è di vero nella possibilità che un giorno leggeremo romanzi o vedremo film scritti da un computer? Qualcosa del genere lo facciamo già. Esistono già software che scrivono notizie estrapolando dati e statistiche (alcuni articoli del Televideo ne sono un esempio) e vengono usati soprattutto per notizie economiche. Non si tratta però di rappresentazioni artistiche, ma anche in questa direzione sono già stati fatti degli esperimenti.
Al Festival di Fantascienza di Londra del 2016 è stato presentato il cortometraggio Sunspring, scritto interamente da un’AI dopo un intensivo corso di letteratura fantascientifica.
Il risultato, però, non è lontano per livelli di coerenza ai corti di Netflix scritti da un essere umano e volontariamente surreali. I personaggi rimangono psicologicamente incomprensibili e i loro dialoghi, nonostante usino frasi grammaticalmente corrette, rimangono isolate e non si fondono tra loro come ci aspetteremmo in un film. L’atmosfera si ripete oniricamente simile alla precedente, i passaggi di trama rimangono confusi e non sempre c’è continuità tra le scene. Non va meglio per la letteratura, e il libro Dinner Depression, nonostante il titolo evocativo e le descrizioni vivide che contiene, fallisce nel creare una trama interpretabile da un lettore umano. Tentativi sono stati fatti anche per l’arte pittorica, e a Gloombot, un algoritmo dell’Università di Cambridge, è stata insegnata storia dell’arte degli ultimi 1500 anni e poi è stata lasciato libero di creare. Con risultati simili però, perché nonostante riusciamo ad avere un’idea degli oggetti rappresentati, più guardiamo attentamente più i dettagli perdono di senso, come un oggetto visto in un sogno.
Il The Guardian in un articolo sulle AI scrive che “la scrittura è una forma di espressione che implica qualcosa da esprimere. Un essere non senziente non ha nulla da esprimere.”
Cosa sono allora i prodotti artistici delle AI?
Secondo alcune teorie, il sogno è un tentativo di immagazzinare i milioni di informazioni che bombardano il nostro cervello ogni giorno e trovargli una collocazione più o meno logica. Non è un caso infatti che la fase REM è inversamente proporzionale alla nostra età: minore è la nostra età, più tempo passeremo a sognare. L’analogia tra il sogno e il funzionamento dei computer non è nuova, ed era stata discussa in un libro dello psicologo Christopher Evans, Landscapes of the Night, nel 1987. Nel libro, Evans sosteneva che la funzione della fase REM del sonno era riarrangiare informazioni e “aggiornare” il programma, alla luce delle nuove informazioni raccolte durante la veglia. Il sogno così sarebbe un meccanismo di difesa, un modo per sperimentare nuove realtà e provare le nostre risposte, secondo un’altra teoria dello psicologo finlandese Antti Revonsuo, che ha studiato l’attività onirica durante la pandemia.
L’intelligenza artificiale usata per scrivere sceneggiature sembra che stia facendo la stessa cosa: immagazzina grandi quantità di informazioni da riorganizzare, e i suoi prodotti, che mantengono sempre un’atmosfera onirica, sono i sogni di un computer che impara a conoscere un mondo sconosciuto.
Naturalmente queste sono speculazioni che appartengono più alla fantascienza di Philip K. Dick che alla realtà, almeno per adesso. Ma se in futuro gli scrittori virtuali diventeranno sempre più auto-coscienti e saranno sempre migliori nell’assomigliare ad uno scrittore umano, avranno incubi ricorrenti basati su quello che guardavamo negli anni 2000 e che ci spaventava. Di nuovo, sconfino nel territorio della fantascienza, perché per ora le opere virtuali sono fredde, illogiche e leggermente noiose.
Quindi, se vi state chiedendo se il vostro forno a microonde scriverà la prossima serie di Netflix la risposta è no, anche se gli sceneggiatori dell’ultima stagione della Casa di Carta ci sono andati incredibilmente vicino.