Ruben Alfieri
In Cina si dice che chi prende questa malattia muore in fretta, non per la malattia ma per disperazione.
In Cina un medico non è legalmente obbligato a riferire la diagnosi di un tumore direttamente al paziente; egli infatti può decidere di riferirla prima alla sua famiglia, che prenderà la decisione di informarlo o meno, a seconda della gravità della malattia e del suo stato psicologico. Il motivo risiede infatti nella credenza che la coscienza da parte del paziente di avere il cancro potrebbe portare a una velocizzazione della sua dipartita oppure a un aggravarsi della malattia stessa. Questo non vuol dire che al paziente non venga somministrato alcun farmaco, ma la cura può essere dissimulata attraverso l’uso di farmaci che servono a gestire il cancro piuttosto che a curare la finta diagnosi.
Alcuni studi supportati dallo Shandong Nature Science Grant dimostrano che il 98% degli oncologi discutono la diagnosi di cancro prima con i parenti del paziente e che l’82% di questi non gli riferiscono nulla senza il loro consenso.
Questa usanza affonda le radici nella cultura tradizionale del Confucianesimo, basato sulla prevalenza dei rapporti umani sui diritti dell’individuo. La nozione di famiglia (Jiā in cinese) è concepita come unità autonoma. Pertanto se a un malato viene diagnosticato un tumore, la sua famiglia si assume la piena responsabilità della sua vita, incluse quindi le decisioni mediche. Se si ritiene troppo doloroso informare il paziente della malattia, allora la famiglia può chiedere al medico di edulcorare la notizia oppure di evitarla.
Il tema è trattato nel film “The Farewell – Una bugia buona”, basato sull’esperienza della regista Lulu Wang. Billy Wang, una ragazza cinese naturalizzata americana, dovrà gestire le contraddizioni che è costretta a vivere tra l’etica occidentale e la cultura orientale quando saprà che alla cara nonna Nai Nai restano tre mesi di vita ma la famiglia non ha intenzione di dirglielo. Con la scusante del matrimonio del cugino, Billy e la famiglia torneranno in Cina per vivere gli ultimi momenti felici con Nai Nai. La regista racconta, attraverso questo primo grande tema, le differenze culturali tra occidente e oriente, in un piccolo commovente e divertente affresco della Cina contemporanea e del suo ricambio generazionale.
Il secondo grande tema che affronta il film è infatti il confronto tra le idee differenti che ciascun componente della famiglia ha sviluppato a seconda delle scelte intraprese nel corso della propria vita. La famiglia di Billy è emigrata negli Stati Uniti in cerca di uno stile e una qualità di vita differenti, mentre la famiglia dello zio emigra per gli stessi motivi in Giappone. Altri parenti decidono invece di rimanere in Cina. La famiglia divisa tra diverse nazioni è una situazione che sicuramente gran parte delle famiglie dei nostri tempi ha vissuto, e come ci sarà già capitato, anche nel film i Wang approfittano dei momenti di convivialità per rivivere il passato insieme, raccontare le scelte che li hanno spinti a dividersi e le esperienze vissute ognuno nel luogo in cui si è insediato. La pellicola diventa quindi spazio di confronto non solo di generazioni ma anche di nazionalità. La Cina, in questo caso, o la tavola attorno alla quale ci si riunisce diventa spazio di relazione, terra di mezzo, luogo neutrale in cui si riflette su se stessi e sull’altro, attraverso le differenze di abitudini e di pensiero che ciascun individuo ha sviluppato nella società in cui si è adattato. In “The Farewell” ognuno rappresenta, con più o meno contrasti interiori, il fagotto della propria seconda nazionalità e della propria generazione, sviluppando un racconto dal leggero senso critico su più fronti.
La vicenda era già stata raccontata dalla regista nel 2016 in What You Don’t Know, un racconto breve letto durante una puntata del programma radiofonico This American Life. Lo stesso anno, il produttore Chris Weitz le ha offerto di dirigere un film basato sul suo racconto, con il supporto dell’iniziativa FilmTwo promossa dal Sundance Institute per aiutare i registi esordienti a realizzare i loro secondi lungometraggi.
Il film ha avuto a disposizione un budget di 3 milioni di dollari. Le riprese si sono tenute per la maggior parte (24 giorni) a Changchun, in Cina, nel giugno 2018, mentre poche altre sono state effettuate nello stato di New York. La direttrice della fotografia Anna Franquesa Solano ha citato come sue fonti d’ispirazione per la pellicola Forza maggiore di Ruben Östlund e Aruitemo aruitemo di Hirokazu Kore’eda.
Dopo essere stato presentato al Sundance Film Festival nel 2019, la A24 ne ha acquisito i diritti per la distribuzione internazionale per 7 milioni di dollari, superando nella trattativa anche i colossi Netflix e Amazon Studios. Tra i riconoscimenti si possono citare quelli di “Miglior Film”, agli Indipendent Spirits Awards del 2020 e “Miglior attrice in un film commedia o musicale” a Awkwafina (nel film Billy Wang), ai Golden Globe 2020.