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Lotta per la sopravvivenza: i Robinson di Varsavia

di Federico Battaglia

Il 2 ottobre 1944 si concluse dopo aspri combattimenti la rivolta di Varsavia. L’insurrezione, voluta dall’Esercito nazionale polacco per sottrarre il possesso della capitale al Terzo Reich, si risolse in un nulla di fatto. Le truppe naziste riuscirono a sbaragliare la resistenza polacca in poco più di due mesi, riottenendo il controllo delle zone contese. La repressione venne condotta spietatamente dalle unità specializzate delle Waffen-SS che vennero impiegate sia in combattimento sia nell’opera di distruzione della città. Su ordine diretto di Heinrich Himmler, Varsavia venne rasa al suolo, casa per casa, come monito per l’Europa intera. La liberazione del Paese dovette, così, essere rinviata, a causa del fallimento della rivolta. Nonostante il tragico epilogo della Powstanie Warszawskie, qualcuno decise comunque di rimanere in città. Nascosti tra le macerie e i resti delle abitazioni, i “Robinson di Varsavia” furono in grado di resistere fino agli inizi del 1945, quando i reparti dell’Armata Rossa arrivarono nella capitale polacca.

Il termine “Robinson di Varsavia” comparve per la prima volta negli anni precedenti lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Venne coniato dallo scrittore polacco Antoni Słonimski, autore del romanzo di fantascienza Le Due Estremità del Mondo, pubblicato nel 1937. Nell’opera, si fa riferimento a un ipotetico progetto di sterminio, messo in atto dal personaggio Hans Retlich (chiara allusione ad Adolf Hitler). Henryk Szwalba, commesso di libreria, per una coincidenza sopravvive all’attacco di Retlich mentre si trova a Varsavia. In uno dei capitoli del libro, Słonimski chiama Szwalba usando l’appellativo di “Robinson di Varsavia” e richiamando la celeberrima opera del britannico Daniel Dafoe, Robinson Crusoe.
Nessuno avrebbe mai immaginato che quel nomignolo sarebbe stato utilizzato per descrivere una situazione realmente accaduta. Una situazione iniziata con l’invasione tedesca del 1° settembre 1939.

Dopo cinque anni di occupazione nazista, i membri della resistenza polacca decisero di insorgere contro l’invasore. A seguito della sconfitta e della resa firmata dai capi della rivolta, venne stabilito che tutti i civili rimasti a Varsavia avrebbero dovuto abbandonare la città insieme ai reparti dell’Esercito nazionale polacco. Il 25 ottobre venne proibito a chi si trovava ancora nella capitale di soggiornare in zona, elevando Varsavia a zona militare. Liberi dalla presenza dei civili, i tedeschi poterono avviare il programma di devastazione sistematica che portò, in poco tempo, alla distruzione della capitale.

Soldati tedeschi a Varsavia

Nonostante questo, alcuni scelsero di non abbondare il luogo in cui avevano vissuto per anni. In 1200 rimasero a Varsavia, in quella che era diventata una città vuota e in completo disfacimento. I “Robinson” erano uomini, donne e anziani, che si nascondevano prevalentemente in cantine o in soffitte di edifici abbandonati. Solitamente, preferivano le abitazioni più dismesse per far perdere le loro tracce. Il rischio di essere scoperti dalle SS o dai soldati del genio tedeschi era molto alto. Le cantine in cui trovavano rifugio venivano adibite a veri e propri bunker, collegati tra loro tramite degli scavi sotterranei. In questo modo si stabilivano dei canali comunicativi tra i superstiti che trascorrevano la maggior parte delle loro giornate al riparo dalle truppe naziste. In alcuni casi i gruppi di “Robinson” erano costituiti da dieci membri, in altri, invece, da trentasette. Ma ci furono anche dei “Robinson solitari”, che si mossero da soli, senza entrare in contatto con gli altri sopravvissuti. Il più famoso tra questi fu sicuramente il compositore e pianista Władysław Władek Szpilman, la cui storia è stata d’ispirazione per il regista polacco Roman Polański.

Władysław Władek Szpilman

Come si può notare dal film Il Pianista di Polański, le condizioni di vita dei “Robinson” erano piuttosto difficili. Il problema principale riguardava i viveri, procurarsi del pane o dell’acqua poteva rivelarsi fatale. Era necessario, quindi, evitare in tutti i modi di rivelare la propria presenza ai tedeschi, attenti a ogni rumore e a qualsiasi accenno di fumo. Per questo motivo, la pressione psicologica a cui erano sottoposti i “Robinson” toccava livelli molti alti, sicuramente non agevolata dalla chiusura e dall’isolamento oppure dalla convivenza forzata con poche persone.

Malgrado la cautela con cui affrontarono la vita a Varsavia, alcuni dei “Robinson” vennero presi prigionieri dai tedeschi. Questi ultimi consideravano gli uomini nascosti come un gran pericolo per le proprie retrovie. Nel novembre del 1944, il generale della Wehrmacht Smilo von Lüttwitz emise una disposizione con la quale avvisava i suoi reparti della presenza di polacchi tra le macerie. Venne disposta anche la mobilitazione di tre reggimenti di polizia, ai quali furono affidati compiti di rastrellamento con l’obiettivo di “ripulire” la città. In tutto, vennero catturati 800 sopravvissuti. Alcuni furono uccisi sul posto, altri vennero spediti al campo di transito di Pruszków, crocevia importante nella rete ferroviaria nazista. Chi, invece, fu in grado di salvarsi dalle retate tedesche rimase nella capitale fino all’arrivo delle truppe sovietiche.    

Le macerie della città

Con la liberazione di Varsavia da parte dell’Armata Rossa nel gennaio del ‘45 si concluse l’esperienza dei “Robinson di Varsavia”. Le loro vicende si svilupparono i vari modi. Qualcuno riuscì addirittura ad informare delle loro condizioni di vita la gente nelle campagne circostanti. Lo fece grazie all’aiuto di operai polacchi, assunti dai tedeschi per svuotare Varsavia dagli oggetti preziosi lasciati dagli sfollati. Ruolo importante venne assunto anche dalla Croce Rossa Polacca che aiutò qualche sopravvissuto ad uscire dalla capitale prima dell’ordine impartito da von Lüttwitz.

Quella dei “Robinson” fu a tutti gli effetti una lotta per la sopravvivenza, portata avanti in un ambiente duro e con il rischio continuo di essere arrestati. A corto di cibo e con pochissimi contatti, si adoperarono per resistere e per restare in vita, in un periodo dove l’esistenza umana era costantemente messa a dura prova. In molti non raggiunsero il 1945, altri, invece, furono capaci di reagire, contando solamente sulle proprie forze. Come accadde a Władek Szpilman che, dopo essere sopravvissuto al ghetto e alle devastazioni naziste, si presentò di fronte ai soldati russi, pronto a ricominciare una nuova vita.