Fedeli attorno alla Kaaba, nella Sacra Moschea a la Mecca. Foto di Adli Wahid su Unsplash
Lorenzo Plini
La pubblicazione della nota dei servizi segreti statunitensi riguardo l’omicidio del giornalista dissidente, il saudita Jamal Khashoggi, ha segnato una delle prime rotture della nuova presidenza Biden rispetto a quella del suo predecessore. I fatti risalgono all’ottobre 2018 quando Khashoggi si recò presso l’ambasciata saudita a Istanbul per dei documenti relativi al suo matrimonio. Lì venne prima catturato, poi torturato e infine ucciso da dei sicari; operazione che avrebbe avuto l’avvallo da parte della monarchia saudita. Se Trump aveva fatto in modo di “coprire” i vertici del governo di Riyad, capitale dell’Arabia Saudita, in particolare il tanto discusso principe ereditario Mohammed Bin Salam (famoso alle cronache italiane per esser stato intervistato da Matteo Renzi), il neopresidente ha di fatto ridimensionato l’alleanza con il Paese arabo, al quale aveva già sospeso la vendita di armi che stanno alimentando il sanguinoso conflitto in Yemen. L’alleanza resta sempre viva, ma le mosse del presidente democratico sembrano segnare una nuova strategia statunitense in Medio Oriente.
Forse non potrebbero essere più diverse: Repubblica presidenziale federale, baluardo di libertà e di democrazia la prima; Monarchia assoluta islamica governata dalla dinastia Saud la seconda. Eppure la loro alleanza risale al 1941 quando, sotto la presidenza Roosevelt, venne votato il Lend Lease Act: gli Stati Uniti si impegnavano a fornire materiale bellico alle nazioni alleate contro il nazifascismo, estendendolo poi anche all’Arabia Saudita. A suggellare l’alleanza fu il cosiddetto patto di Quincy (ovvero, l’incrociatore dove venne firmato il patto, ancorato nei pressi del canale di Suez) del 1945, in cui gli Stati Uniti garantivano protezione militare all’Arabia, in cambio di petrolio e di un’azione contenitiva verso l’Unione Sovietica in Medio Oriente. Fu così almeno sino alla crisi energetica del 1973. Da quel momento in poi il petrolio non fu più il pilastro che reggeva l’alleanza, sostituito sempre più da una funzione anti-terroristica e anti-iraniana da parte di Riyad.
Quest’ultima funzione ha di fatto accentuato una contrapposizione già presente all’interno del mondo islamico, tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita. Termini spesso pronunciati dai telegiornali, di cui la storia e il significato sono sconosciuti a molti. Per comprenderli dobbiamo tornare indietro sino alla morte del profeta Maometto. Siamo nel 632 d. C., quando sorse il problema su chi avrebbe dovuto prenderne il posto a capo della comunità islamica (Umma). La maggioranza di essa appoggiò Abu Bakr, il suocero del Profeta, che venne nominato primo Califfo. Costui aveva un ruolo per lo più politico, e decise di seguire un codice di comportamento giuridico, etico e sociale che tutti i fedeli avrebbero dovuto rispettare, chiamato Sunna (da lì il termine sunniti). Invece, la minoranza della comunità sosteneva ‘Ali, genero e cugino di Maometto, convinta che alla guida dovesse esserci un membro diretto della famiglia del Profeta. La fazione di ‘Ali venne chiamata shīʿatʿAlī (da lì sciiti).
Alla fine la maggioranza impose il suo volere, ma la spaccatura interna era tutt’altro che sanata. Neanche la nomina a quarto Califfo di ‘Ali riuscì a riappianare i contrasti. Anche perché nel 680 d. C. il quinto Califfo sunnita ordinò l’assassinio dell’imām (sorta di guida spirituale della comunità) Hussein, figlio di ‘Ali, a Karbala, nell’odierno Iraq. La sua morte è ancora oggi celebrata con la cerimonia dell’Āshūrā, durante la quale i fedeli sciiti si flagellano. Questo evento segnò una sorta di scisma all’interno del mondo islamico, portando a una rottura definitiva fra l’islam sunnita e quello sciita. Per gli sciiti, l’imām doveva essere necessariamente il parente maschio più stretto del Profeta perché la conoscenza esoterica era incarnata in Maometto e nella sua famiglia; diversamente dall’islam sunnita, alla cui carica di imām poteva accedere qualsiasi credente. Ma all’interno della stessa minoranza sciita si crearono delle differenziazioni. Partendo da ‘Ali, la linea di successione degli imām proseguì per sei generazioni. Il sesto imām nominò come successore il figlio Isma’il, che sfortunatamente morì prima del padre. Alcuni sciiti si convinsero così che l’imām Isma’il (proprio perché infallibile data la sua discendenza dalla famiglia del Profeta) non fosse veramente morto, bensì si fosse occultato in un’altra dimensione. Per questi sciiti, che presero il nome di ismailiti o settimani, l’imām sarebbe riapparso alla fine dei tempi per ristabilire giustizia ed equità. Ma per la maggioranza degli sciiti la linea di successione degli imām continuò con il fratello di Isma’il, sino all’undicesimo imām, che morì senza lasciare figli. La scappatoia adottata fu simile a quella degli ismailiti perché venne attribuito all’undicesimo imām un figlio anch’egli occultato (sciiti duodecimani).
Si stima che i sunniti costituiscano circa l’80 per cento del mondo islamico, rappresentando una maggioranza schiacciante in Arabia Saudita, Turchia, Indonesia e in tutta l’Africa islamica. Gli sciiti, invece, sono in maggioranza in Paesi come l’Iran, l’Azerbaijan e il Bahrain, rappresentando comunità importanti in Libano, Yemen e Siria, mentre nella complessa realtà irachena costituiscono circa il 50 per cento. Vero custode della minoranza che appoggiò ‘Ali è l’Iran, soprattutto dopo la rivoluzione del 1979. Da quel momento in poi la figura dello Ayatollah (adattamento della pronuncia persiana dell’arabo āyat Allāh), vista come “riflesso” di Allah sulla Terra, divenne sempre più importante. L’Iran, anche se si proclama una Repubblica islamica, è di fatto una teocrazia al cui vertice c’è lo Ayatollah ‘Ali Khamenei, che nelle sue mani racchiude sia il potere religioso che quello politico. Come massime espressioni delle rispettive correnti islamiche, Iran e Arabia Saudita si sono combattute e si continueranno a combattere indirettamente e “per procura”, appoggiando e finanziando le rispettive formazioni religiose in altri Paesi mediorientali.
È bene tenere presente questa divisione interna quando parliamo del mondo islamico e in generale del Medio Oriente. A partire dal Primo Conflitto Mondiale, le potenze occidentali ingolosite dall’abbondanza di petrolio hanno contribuito in maniera determinante a rendere ancor più complessa la già difficile situazione geopolitica e religiosa della regione. Molte delle tensioni che ancora oggi finiscono per infiammare il Medio Oriente sono proprio il frutto dell’ingerenza occidentale, che è continuata in maniera ininterrotta dalla Seconda Guerra Mondiale in poi.