di Alessia S. Lorenzi
Il terzo Canto dell’Inferno è ambientato nella zona dell’Antinferno, che Virgilio e Dante devono attraversare per cominciare la discesa nei vari Cerchi. Giungono di fronte alla porta dell’Inferno, su cui sono incise parole terribili, che non fanno altro che ribadire la dannazione e la sofferenza del luogo (vv.1-3): “Per me si va ne la città dolente /per me si va ne l’etterno dolore,/per me si va tra la perduta gente.” Essa mette in guardia chi sta per entrare, ammonendo che tale porta durerà in eterno e che, una volta varcata, non c’è speranza di tornare indietro. I caratteri “di colore oscuro” alludono più che per al luogo buio, al loro tremendo significato (v. 9) : “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’”. Virgilio previene lo spavento del poeta e lo soccorre dinanzi alle tremende sensazioni che prova all’ingresso della città infernale (vv.1415): “Qui si convien lasciare ogne sospetto; /ogne viltà convien che qui sia morta”. Dante trae conforto e sostegno dal gesto amorevole di Virgilio (vv.19-20) “[…] che la sua mano a la mia puose /con lieto volto, ond’io mi confortai […]”, gesto di affetto che rincuora e risolleva il poeta in quel delicato momento e che sottolinea ancor di più la veste di “guida” che Dante attribuisce al poeta latino. L’ingresso in quel luogo ha per Dante un effetto drammatico, il quale, resta colpito sia da quello che vede, quindi un luogo buio e tetro, sia da quello che sente, ovvero, le orribili urla di disperazione e le imprecazioni d’ira dei dannati, che lo fanno angosciare e lo portano a piangere, come accadrà diverse volte nel suo viaggio infernale. Spinto e rincuorato dalla sua guida, Dante varca la porta infernale e i due si ritrovano nella zona che precede l’Inferno vero e proprio. Le anime degli ignavi, secondo Virgilio, non sono degne di considerazione da parte di Dante (v.51): “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. L’atteggiamento nei confronti degli ignavi è di assoluto disprezzo. Per loro non c’è nemmeno un posto nell’inferno, dove i dannati che scontano le loro colpe, hanno almeno dimostrato di prendere una posizione, brutta, discutibile o condannabile che fosse, compiendo la loro scelta. Proprio per questo disprezzo, nessuno degli ignavi viene nominato da Dante, neppure (vv.59-60) “colui / che fece per viltade il gran rifiuto”. Nel corso dei secoli sono state fatte tante numerose supposizioni su chi fece “per viltade il gran rifiuto”. Si potrebbe trattare di Ponzio Pilato che abbandonò Gesù nelle mani del popolo, che lo condannò perché lui non si assunse la responsabilità di esprimere un suo giudizio. Alcuni hanno attribuito la definizione ad Esaù che cedette la primogenitura al fratello Giacobbe per un piatto di lenticchie, dimostrando di non gradire la benedizione del padre Isacco. La più accreditata delle ipotesi però, parla di papa Celestino V, tale Pietro Angeleri, meglio noto come Pietro da Morrone, il quale venne eletto Papa il 5 maggio 1294. Egli accettò l’incarico malvolentieri e successivamente, nel dicembre dello stesso anno, abdicò. La sua colpa, secondo Dante, sarebbe stata quella di aver avallato, con la sua rinuncia, l’elezione di Bonifacio VIII, responsabile, sempre secondo il poeta, della corruzione della Chiesa e anche del suo esilio. L’ignavia è considerata, quindi, una colpa tanto più grave quanto più coinvolge i destini collettivi dell’umanità. Gli ignavi, per la legge del contrappasso, sono costretti a rincorrere un’insegna bianca senza nessun simbolo (perché priva di scopo è stata la loro vita terrena) che gira su se stessa, rispecchiando la loro inettitudine che in vita li aveva resi incapaci di perseguire un ideale. Poco dopo Dante e Virgilio arrivano nei pressi del fiume Acheronte. Tante anime si accalcano e aspettano di essere traghettate all’altra sponda. Dante non riesce a spiegarsi come mai quelle anime sembrino ansiose di attraversare il fiume. Virgilio gli dice di avere pazienza e di attendere che avrà le risposte al momento giusto. Ed ecco arrivare il vero protagonista del Canto: Caronte. Dante descrive il traghettatore infernale, ispirandosi alla fisionomia del personaggio che già era stato menzionato nell’Eneide, esasperandone, però, i tratti demoniaci. Le divinità degli inferi erano considerate personificazione del demonio e anche Dante fa lo stesso con tutte le creature infernali che incontra nel suo cammino. Con barba bianca e occhi fiammeggianti arriva urlando (vv.84-87): “Guai a voi, anime prave! /Non isperate mai veder lo cielo: /i’ vegno per menarvi a l’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo”. La figura di Caronte, come quella di altri guardiani infernali, sta a significare l’impedimento del peccato che ostacola la salvezza dell’anima. I dannati si accalcano lungo la sponda del fiume e Caronte, battendo sul remo, fa loro cenno di salire. Come un moderno scafista, Caronte cerca di far entrare il maggior numero possibile di anime e colpisce chiunque cerchi di adagiarsi sul fondo. La sua crudeltà ci ricorda un po’ quella degli scafisti clandestini, uomini senza scrupoli e senza umanità che ammassano numerosi gruppi di persone su navi piccole e insicure, e li trasportano dall’Africa fino ai Paesi del Mediterraneo. A differenza di Caronte che, secondo la mitologia veniva pagato dai nuovi morti con una moneta, gli scafisti vengono pagati con ingenti somme di denaro in cambio della speranza di un domani migliore. Così, come le anime destinate ad essere trasportate nell’Inferno sono impazienti di oltrepassare il fiume, anche i migranti, oggi, sono spinti dalla speranza di fuggire da una dura realtà, spesso fatta di povertà e di guerra. Eppure non sempre riescono a giungere a destinazione e, talvolta giungono davvero in un Inferno, di prostituzione o di sfruttamento. Caronte col bastone colpiva le anime che erano già morte, gli scafisti di oggi usano la violenza contro uomini, donne e bambini che si sono affidati a loro. Tornando a Dante sulle rive dell’Acheronte, Caron dimonio si accorge subito che è vivo e lo sgrida, invitandolo ad andar via da lì (vv.88-89) “E tu che se’ costì, anima viva, /pàrtiti da cotesti che son morti” Virgilio lo zittisce subito (vv. 94-96): «Caron, non ti crucciare: /vuolsi così colà dove si puote /ciò che si vuole, e più non dimandare». È interessante osservare che Virgilio userà altre volte la stessa formula di ammonimento, contro chi cercherà di ostacolare il prosieguo del cammino di Dante. Virgilio, quindi, spiega che il viaggio di Dante è voluto da Dio e nessuno, nemmeno lui, può opporsi. Caronte qui anticipa a Dante la sua salvezza quando gli dice (vv.91-92: “Per altra via, per altri porti /verrai a piaggia […]” Il traghettatore infernale continua a caricare le anime dei dannati, che tremano per il terrore e imprecano. Il Canto si chiude con lo svenimento del poeta che si risveglierà al di là dell’Acheronte.