di Roberto Molle
C’è un cantautore inglese che a tutti gli effetti sembra americano, si muove sui territori del roots-rock ma è capace anche di splendide ballate mediterranee. Si chiama Lee Fardon e la prima volta che ho ascoltato le sue canzoni (avrò avuto poco più vent’anni) mi guardava dalla copertina del suo secondo album (“The God Given Right”) fatto di pezzi leggeri che profumavano di rock’n roll; mi venne da pensare che Lee era bravo, ma che se non avesse dato una maggiore incisività alle sue composizioni, sarebbe stato complicato emergere nella jungla del rockstar-system.
Approfondendone la conoscenza mi sono reso conto di quanto la sua storia sia identica a quella di mille altri musicisti di cui le cronache rock sono piene. Gente che passa la vita nell’ombra e che solo per un breve momento è illuminata dalla luce dei riflettori, giusto un lampo prima che gli spotlight passino su altri ancora. La definizione esatta per personaggi simili è loser, perdenti nell’arte e nella vita, parole che chi è destinato a non vincere mai declina sempre come fossero una sola. Come dire, quella di Lee è una storia avvolta da un’aura romantica votata ineluttabilmente all’empatia.
Lee Fardon nasce nel 1953 a Battersea (nel Surrey), a sud di Londra. Impara giovanissimo a suonare la chitarra con ambizioni cantautorali, suona anche il basso ma lo fa alla corte di musicisti minori del sottobosco classic inglese. Nel 1977 registra una cassetta demo e la spedisce all’Arista (etichetta discografica di ambito rock e black music) che in quel periodo era alla ricerca di proposte musicali che tenessero il passo con l’esplosione del punk e della new wave. L’Arista mette sotto contratto Lee e la sua backing band (The Legionaries).
Tutto sembra partire col piede migliore, escono un singolo (She’ll Break Your Heart) e un extended play in cui appare la futura cantante degli Eurithmics Annie Lennox, all’organo e ai cori nel brano Fast 17. I Dire Straits lo scelgono come supporto per un tour e di lì a poco registra il suo primo album “Stories Of Adventures”.
A quel punto succede qualcosa di inspiegabile, l’etichetta decide di non pubblicare il disco e lo scarica senza dare alcuna spiegazione, a quel punto Lee decide di sciogliere i Legionaries. L’esperienza con i Dire Straits frutta comunque un rapporto di stima con la band e Mark Knopfler è ben felice di produrre un brano di Lee Fardon e di suonarci anche dentro. Purtroppo l’aura negativa che sembra orbitare intorno al musicista torna a fare danni, la canzone viene registrata ma nessuna etichetta vuole pubblicarla e tutto resta nel cassetto. I successivi due anni vedranno la caduta di Lee in uno stato di depressione e alla ricerca della soluzione ai problemi attraverso l’alcol (che lo accompagnerà per buona parte della sua vita). Elementi questi che concorrono a comporre la figura di quel perfetto loser di cui sopra.
Quando tutto sembrava dovesse finire nel peggiore dei modi, una piccola etichetta (la Aura Records) accetta di pubblicare “Stories Of Adventure”, è il 1981. L’album non ottiene grandi riscontri ma l’etichetta ha fiducia in lui e a breve gli permette di registrare un altro album: “The God Given Right”. Il disco esce nel 1982 e i riscontri stavolta sono lusinghieri, anche se lontani dal successo che il musicista merita. Laddove “Stories Of Adventure” era un album leggero e dinamico, “The God Given Right” è il disco della maturità, fatto di belle canzoni; Lee si dimostra ottimo songwriter e cantante dalla voce duttile e ombrosa. Se si dovessero cercare dei modelli da accostare a questo musicista sui generis, i primi nomi che verrebbero sono quelli dell’irlandese Van Morrison (di When She Rains, Window Display) e dell’americano Elliot Murphy (di Togheter In Heat, Dreaming Still, Turn Out The Light). Ma c’è dell’altro in “The God Given Right”, ci sono sfumature che risentono del respiro della new wave, e momenti che guardano al Bruce Springsteen di “Darkness On The Edge Of Town”.
Nel 1985 registra il suo terzo album, “The Savage Art Of Love”. Un disco che non ha la stessa rabbiosa intensità dei precedenti ma che contiene alcuni dei pezzi migliori di Lee; chi scrive era particolarmente innamorato di Maria And Writer, un brano con un intro di chitarra spagnoleggiante dove a tratti esplodeva la sua voce moderatamente rauca, capace di un lirismo profondo e delicato. Ma in termini di vendite sarà un altro flop.
Intanto la vita continua a giocare brutti scherzi a Lee Fardon, vicissitudini e fallimenti personali lo portano a un arresto che lo terrà in carcere per sei mesi.
Nel 1991 arriva finalmente un nuovo disco, “Too Close To The Fire”, registrato in Italia grazie ad alcuni fan illuminati. Un album dignitoso fatto di ballate e svisate rock’n roll che continuerà a tenere Lee in quella sorta di bolla senza infamia ne lode che ormai si è saldata intorno a lui. Poi un altro periodo ancora più lungo di silenzio e sventura: l’alcol e la droga hanno la meglio sulla psiche di Lee, ancora un arresto e la sua casa che brucia in circostanze poco chiare. Nel 2002 esce la raccolta di vecchi brani “Lost & Found”, quindi nel 2003 il quinto album “Compassion” e nel 2014, “London Clay”. Oggi Lee ha un sito web e un profilo Facebook (di recente ha pubblicato il suo ultimo lavoro “On The Up Beat” attraverso un crowdfunding) e continua a proporre la sua musica ma non è mai diventato famoso, sul web si fatica a trovare video di suoi concerti. Come si diceva, dalle sue parti la definizione più calzante per definire uno come lui è loser e personalmente credo che quel tipo di musicisti siano i migliori, perché vogliono solo fare la loro musica senza curarsi troppo del ritorno economico e del successo, e andranno a suonare dove ci sarà sempre qualcuno disposto ad ascoltarli, anche in capo al mondo perché… i perdenti hanno un cuore più grande.