di Enrico Molle
In Clinamen-periodico di cultura umanistica – n. 3, pagg. 42-45,
Chiusi la porta del mio ufficio che fece un rumore metallico. Erano le 19.23 e finivo il mio lavoro con un quarto d’ora di anticipo. Ero ben visto dal mio superiore, per questo non fece caso alla mia uscita prematura. Salutai meccanicamente il mio collega Lesley e scesi le scale per avviarmi all’uscita. Quando fui fuori notai che aveva smesso di piovere e che il cielo, ancora afflitto, rimaneva grigio prima di oscurarsi del tutto con l’arrivo della notte. Era martedì ed io non avevo mai avuto un buon feeling con l’inizio settimana. Mi sentivo un po’ di schifo addosso, un mix di torpore e inadeguatezza, qualcosa che mi costringeva a tenere i denti ben stretti e ad aggrottare le sopracciglia alienandomi dal resto del mondo. Quando andai ad aprire lo sportello della macchina, sbadatamente mi cadde per terra il cellulare. Sfiorò una pozzanghera, ma fortunatamente, essendo protetto da una custodia, non si fece nemmeno un graffio. Entrai in macchina. Una volta seduto mi sentii meglio grazie all’odore e alla comodità dei sedili in pelle. Guardai l’orologio che avevo al polso e vidi che segnava le 19.27. Pensai di fare un salto al Soul, in fin dei conti non avevo nulla da fare e nessuno che mi aspettava a casa. Il Soul era uno dei locali più in vista a Merelein, distante venti minuti in macchina da dove lavoravo, era situato nel Moderat, il quartiere più ricco della città. Dopo mezzo chilometro di strada confermai l’idea di voler andare a bere qualcosa prima di tornare a casa, quindi mi misi comodo e accesi la radio. Mandavano Release dei Pearl Jam e riascoltarla mi aveva riportato col pensiero agli anni universitari e ad alcune sere passate a crogiolarmi nei tormenti della giovinezza. Si insinuò dentro di me l’idea che all’epoca ero una persona migliore, ma la scacciai con un’indifferenza assoluta. Il passato è sempre dentro le persone e cerca di ripetersi ad ogni minima occasione. Alcuni ci perdono la testa, io per fortuna ci rinunciavo.
Eddie Vedder mi accompagnava probabilmente verso un’altra sera dannata e la pioggia ricominciò a scendere. Poche gocce lente cadevano sul parabrezza, allora accesi il tergicristalli. Mentre ero fermo al semaforo che mi avrebbe permesso di accedere alla circonvallazione per arrivare più velocemente nel Moderat, osservai i due spazza acqua fare avanti indietro. Mi persi per un attimo e con la mente andai ancora una volta nel passato. Ripensai ad Elise. Non ne conoscevo il motivo, ma ogni volta che pioveva, e a Merelein accadeva spesso, ripensavo ad Elise. In quel preciso istante stavo pensando al suo matrimonio, al fatto che non mi avesse nemmeno invitato e che in fin dei conti me lo ero anche meritato. Ora aveva la sua vita, speravo spesso che fosse felice ed era uno dei pochi casi in cui non lo facevo con ipocrisia. Scattò il verde e mi rimisi in marcia. Era pieno autunno ed il sole ormai era quasi andato via completamente. Le luci della città parevano un ubriaco gioco di fuochi colorati, traballanti per via dell’acqua che ora scendeva più violentemente. Ero irrequieto e più mi avvicinavo al Soul, più sentivo prendere fuoco dentro. Era da tanto che andavo in giro solo. Eccetto un paio di amici lontani, gli altri si erano persi per strada per motivi che ormai non ricordavo. Ero una persona veramente sola ed ero consapevole di averlo voluto e pianificato da sempre, nonostante cercassi di nascondermelo. Dopo venti minuti ero al Soul. Parcheggiai la macchina e non avendo l’ombrello, nei dieci metri che feci per entrare nel locale presi un bel po’ d’acqua. Mi asciugai il volto e i capelli con la manica della giacca e imprecai silenziosamente. Il locale, nonostante fosse solo martedì sera, era pieno di gente. Per coloro che credono di non essere schiavi della propria vita i giorni sono tutti una festa. Io non appartenevo a quella categoria e avevo un conto in banca misero rispetto ad ogni altra persona lì dentro, camerieri esclusi. Uno di questi mi fermò a due passi dell’entrata mentre ancora mi asciugavo e con il massimo dell’autorevolezza mi chiese di cosa avessi bisogno. Risposi che non ero in compagnia e che mi sarebbe andato bene un tavolo qualsiasi. Mi accompagnò nella saletta al primo piano dove un’intera vetrata dava su J. B. Park. Mi accomodai e ordinai un Campari Gin e degli stuzzichini. Mentre aspettavo mi accorsi che dopo due tavoli alla mia destra c’era una ragazza, conosciuta ai tempi dell’università che chiacchierava e sorseggiava qualcosa con un’amica. Si chiamava Julie e frequentava da sempre i locali più lussuosi della città, quindi prima o poi l’avrei rivista andando al Soul. Pensai che non mi avrebbe riconosciuto mai e poi mai, ma non fu così. Quando i nostri sguardi si incrociarono fece un sorriso e si alzò per venire verso di me. Allora anche io mi sollevai per accoglierla. Ci scambiammo due baci sulla guancia.
«Ciao Dean, come stai?» ed il suo sorriso mi mostrò tutti i suoi trentadue denti bianchissimi «E’ da un sacco che non ti vedo!»
«Ciao Julie. Effettivamente non ero convinto che mi avresti riconosciuto. Io sto bene, sono da poco uscito dal lavoro e volevo mangiare una cosa prima di rincasare».
Non sentii il dovere di chiederle come stava, si vedeva lontano un miglio che stava bene.
Lei fece per guardarsi intorno e poi riattaccò «Sei solo?»
«Si, si. Io… io volevo rilassarmi un po’ prima di tornare a casa. Sai, mi piace staccare dallo stress del lavoro bevendo qualcosa senza pensare a nulla…».
Non potevo confessarle che spesso passavo da quel locale con lo scopo di trovare qualche donna che si facesse offrire da bere e che magari mi riaccompagnasse a casa. Tra l’altro avrebbe potuto sentirsi una candidata, ed io non avevo nessuna intenzione di offrirle da bere.
Nel frattempo arrivò il cameriere che guardandomi disse «Signore. Il suo Campari Gin e gli stuzzichini» poi adagiò tutto sul tavolo.
Julie fece uno sguardo leggermente stupito e poi mi poggiò una mano sul braccio destro.
«D’accordo caro, ti lascio alla tua serata. Mi ha fatto piacere rivederti!».
«Anche a me ha fatto piacere. Ciao Julie, buona serata!».
Non avevo dovuto farle una bellissima impressione, al contrario forse le feci un po’ pena. Ma non mi importava, a volte facevo pena a me stesso. Quella era la mia vita. Dopo aver studiato economia per sei anni avevo un lavoro, guadagnavo abbastanza per non dover vivere con i miei e non passavo molto tempo con altra gente. Un tempo non ero così. Un tempo, con Elise, uscivamo sempre in comitiva ed eravamo felici, solo che non me ne rendevo conto. Poi la storia tra me e lei iniziò a rallentarsi fino all’immobilità più totale, quindi fu così che misi in un cassetto quattro anni della mia vita senza sapere se avrei mai avuto il coraggio di riaprilo. Quindi erano quelle le mie serate: dopo il lavoro passavo spesso al Soul, altre volte andavo al Jean Garden, un altro locale piuttosto carino di quel quartiere, bevevo qualcosa e facevo la conoscenza di belle signore, la maggior parte divorziate o con storie strane per la testa. Ogni tanto qualcuna di loro passava la notte con me, ma era più una tortura che un piacere. Un tempo ero un tipo sentimentale, quindi ogni volta che agivo senza amore spezzavo in più punti la mia anima. Era l’inerzia del mio status, probabilmente ad un certo punto tutto si sarebbe fermato, o probabilmente sarei finito per diventare la persona che non avrei mai voluto essere. Ero consapevole della mia situazione, ma non potevo affrontare un discorso con me stesso quel martedì sera.
Perso nei miei pensieri avevo bevuto metà del mio cocktail e mi sentivo sereno ed intorpidito, quindi mangiai tutti gli stuzzichini in modo da aiutare il mio stomaco e finire l’altra metà della bevanda. Quella sera non avrei conosciuto nessuno e forse mi andava più che bene così. Mentre riprendevo a sorseggiare il mio Campari Gin, ormai annacquato perché il ghiaccio si era sciolto, mi voltai verso la vetrata e vidi la città. La pioggia si era fermata, sul vetro le gocce d’acqua si aggregavano lentamente e poi scivolavano giù. La visuale era bellissima. Le luci della città, ancora loro, quella sera mi avevano rapito per la seconda volta. Chissà quante storie correvano al loro bagliore, nelle case, sotto i lampioni, ai semafori. Chissà quante di quelle storie erano più entusiasmanti della mia o più tristi. Eppure, aveva senso questo mio ultimo pensiero? Ognuno vive la sua storia come se fosse l’unica al mondo, entusiasmo e tristezza si alternano in tutti, non sempre una storia apparentemente migliore di un’altra lo è davvero.
Finii il mio drink e poggiai il bicchiere sul tavolo con aria spocchiosa. Mi sarei fermato lì, non andavo mai oltre quando sapevo di dover guidare.
Cercai di porre freno al mio flusso di pensieri e mi alzai per pagare il conto. La ragazzina alla cassa mi sorrise e mi chiese se avessi fatto conquiste. Ormai mi conosceva da quasi un anno, ero un cliente abituale. Le risposi che quella sera l’unica cosa che volevo conquistare era il portafogli del suo capo. Lei scoppiò in una risata sincera e mi lanciò un’occhiata molto dolce. Mi sciolsi un po’, toccai per un istante la mia parte più tenera e mi resi conto che mi mancava dannatamente. Mi ricomposi subito e pagai. Uscendo salutai il cameriere che mi aveva accolto, il quale mi augurò una buona serata. Evitai un paio di pozzanghere e mi misi in macchina per avviarmi verso casa. Sperai di ritrovare i Pearl Jam alla radio, ma non beccai nulla di buono. Misi in moto e partii. Ci avrei messo altri venti minuti per arrivare a casa. Guardai l’orologio digitale dell’auto perché era ormai buio per distinguere qualcosa su quello al polso: erano le 21.16. Io mi sentivo già stanchissimo.
Sui marciapiedi di Moderat i ragazzini scherzavano e si muovevano freneticamente, erano felici, come tutti noi un tempo. Alcune coppie si avviavano verso il J. B. Park per scambiarsi quattro coccole d’amore. Qualche altro solitario girovagava senza una meta. Le persone nelle macchine ritornavano o a casa o in posti di cui sentivano la mancanza. La vita scorreva fuori così vera, che per un istante mi sentii parte di quel muoversi irregolare di gesti e situazioni. Tuttavia ero fuori da quel gioco così bello e pericoloso, forse per autodifesa, forse per pigrizia. Forse non lo avrei mai scoperto. Eppure la vita scorreva, mentre io rotolavo verso una lenta morte così indolore.
Alla radio sentivo strani pianoforti dai suoni morbidi. Lo interpretai come un piccolo segnale, di conferma o di avvertimento. Mi diceva che io ero davvero fuori da quella vita che vedevo, che forse ero troppo speciale o lo ero troppo poco per vivere come gli altri. Questo pensiero mi consolò un po’ e lo tenni stretto per non angosciarmi.
Il tempo accelerò e fui a casa. Lasciai la macchina nel parcheggio ed entrai nel condominio. Feci due piani con l’ascensore, aprii la porta di casa ed una serie di gesti meccanici e sistematici mi accompagnò verso il letto. Mi stesi. Erano le 21.41. Guardai il soffitto appena illuminato dalla lampada che era sul comodino. Mi passai una mano tra i capelli e decisi che era meglio dormire affogando ogni pensiero. Forse anche io perdevo la testa con il mio passato e per questo non riuscivo a pensare a nessun futuro. Forse c’erano una miriade di cose che non mi ammettevo e che avrei dovuto affrontare. Si, di sicuro era così. Doveva essere così. Ma il sonno prese il sopravvento, quindi spensi la lampada e mi lasciai andare attendendo il mattino che, come sempre, mi avrebbe rimesso al mondo più forte di prima.