di Alessia S. Lorenzi
Sono tante le “metamorfosi” che si presentano davanti al lettore della Divina Commedia. In gran parte del poema si può riconoscere una citazione, un’allusione, un verso in cui il materiale metaforico o mitico “entra” nel testo dell’opera modificando e adattando il testo pagano al poema cristiano quale è, appunto, l’ opera dantesca. Lo stesso accade per l’Eneide di Virgilio. Sullo stesso stile dell’Eneide c’è un’altra grande opera: “Le Metamorfosi” di Ovidio. Le due opere sono quasi contemporanee, l’opera di Ovidio è scritta solo una ventina di anni dopo l’Eneide. Il grande poema delle Metamorfosi diventa una presenza costante nel corso delle tre cantiche dell’opera dantesca. In effetti è un grande repertorio mitologico di immagini e di personaggi per la fantasia degli autori di ogni tempo. Le Metamorfosi sono un’opera particolare, perché fondata sulla trasformazione di esseri umani in piante, animali, sassi, acqua, divinità o altro ancora. Ovidio narra la storia del mondo come una storia di trasformazioni: tutti gli episodi della mitologia sono trascritti ponendo in risalto il prodigio del cambiamento. Non è un caso se Dante pone Ovidio tra i grandi di ogni epoca, nel Limbo, prima di Lucano e subito dopo Omero e Orazio.
“Mira colui con quella spada in mano,/che vien dinanzi ai tre sì come sire:/quelli è Omero poeta sovrano; /l’altro è Orazio satiro che vene;/Ovidio è ‘l terzo, e l’ultimo Lucano.” (Inf. Canto IV, 88-90)
Come dicevo prima, la Commedia è un’opera di metamorfosi. Nell’Inferno taluni dannati sono descritti nella perdita dell’aspetto umano causata dal peccato e dalla dannazione, sono così trasformati in piante o orribili animali. Una delle più straordinarie metamorfosi infernali è quella dei suicidi nel Canto XIII dell’Inferno. Essi hanno perso il loro aspetto umano e sono trasformati in alberi dai nodosi rami.
“Non fronda verde, ma di color fosco; /non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;/
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:” (Inf. Canto XIII, 4-6)
Nodosi rami, quindi, mentre le loro foglie non erano verdi, ma di un colore scuro; i rami erano nodosi e contorti; non c’erano frutti, ma spine velenose.
Ma non finisce qui, ancora altri esseri mostruosi compaiono in questo Canto, sono le “brutte Arpie” che straziano questi “alberi”. Le Arpie sono esseri mostruosi dal volto di donne e corpo di uccello rapace, provenienti dall’Eneide, altra opera a cui Dante si ispira per alcuni personaggi, come molti degli esseri mostruosi dell’inferno, nei quali l’aspetto orribile sembra derivare da una metamorfosi non completata, come se il passaggio da una natura all’altra fosse irrimediabilmente interrotto, rendendo i due esseri eternamente insieme. Pensiamo ad esempio anche ai Centauri, a Gerione, al Minotauro.
La trasformazione dei suicidi in piante richiama un po’ alcuni personaggi dell’Eneide, pensiamo a Polidoro trasformato in arbusto. Ma anche nell’opera di Ovidio ci sono molti esseri umani trasformati in piante: le Eliadi trasformate in pioppi oppure Dafne trasformata in alloro…
Nel Purgatorio, la trasformazione rappresenta la purificazione e la rinascita perché questa cantica è il regno in cui l’anima umana si purifica e diviene degna di salire in Paradiso.
“e canterò di quel secondo regno/dove l’umano spirito si purga/e di salire al ciel diventa degno.” (Purg. Canto I, 4-6)
Qui, grazie al volo mosso da “l’ale snelle e con le piume/
del gran disio”, si verifica il processo di liberazione e l’anima si innalza pura verso il Paradiso.
Ed è qui il momento culminante della metamorfosi che porta i “vermi” umani a diventare un’angelica farfalla”
“non v’accorgete voi che noi siam vermi /nati a formar l’angelica farfalla,/che vola a la giustizia sanza schermi?” (Purg. Canto X, 124-126)
Il tema della purificazione, della nascita a nuova dimensione sono annunciati già all’inizio della cantica.
Dante, nel corso dell’ascesa della montagna, avendo ancora il corpo mortale che ha bisogno di riposo, ha l’opportunità di sognare. Nei tre sogni che il poeta fa nel Purgatorio i temi della metamorfosi ci sono tutti e sono a tratti drammatici. Nel primo sogno, Dante sogna un’aquila dalle penne d’oro che viene dal cielo, lo rapisce e lo trasporta in alto fino alla sfera di fuoco:
“in sogno mi parea veder sospesa/un’aguglia nel ciel con penne d’oro,/con l’ali aperte e a calare intesa;/ ed esser mi parea là dove fuoro/abbandonati i suoi da Ganimede,/quando fu ratto al sommo consistoro.” (Purg. Canto IX, 19-24)
Qui viene citato Ganimede, il mitico giovinetto rapito da un’aquila, per volontà degli dei, e sollevato verso il cielo dove diventa coppiere degli dei. Di lui avevano già scritto sia Virgilio sia Ovidio.
Ovvio che anche nel Paradiso incontriamo trasformazioni e non poteva non essere così. Il Paradiso è il luogo della metamorfosi spirituale di Dante.
Dante e Beatrice si trovano nel paradiso terrestre e l’inizio dell’azione narrata nel Paradiso sottolinea il carattere prettamente visivo del viaggio attraverso quest’ultima cantica.
Beatrice fissa il sole e ci prova anche Dante, ma deve desistere subito.
Egli può però guardare negli occhi Beatrice, che restano sempre fissi nel sole, chiaro simbolo della luce divina. Dante usa gli occhi di Beatrice come se fossero uno specchio. Egli contempla la luce del Paradiso celeste attraverso gli occhi di lei. Ed è proprio attraverso questa luce che ha inizio l’ascesa del poeta verso il cielo, e quindi il suo andare oltre le possibilità concesse agli esseri umani.
Il poeta fa riferimento a questo andare al di là della condizione umana, indirettamente, attraverso il mito, la similitudine, la metafora.
“Nel suo aspetto tal dentro mi fei,/qual si fé Glauco nel gustar de l’erba /che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi./ Trasumanar significar per verba/
non si poria; però l’essemplo basti/a cui esperienza grazia serba.” (Par. Canto I,67-72)
Dante spiega che nel guardarla divenne dentro come Glauco quando mangiò l’erba, che lo trasformò in una divinità marina. Sottolinea anche il fatto che elevarsi al di là dei limiti umani non si può spiegare a parole: bisogna accontentarsi dell’esempio mitologico.
Glauco è un modello dell’andare oltre le possibilità umane, della metamorfosi dell’uomo verso una condizione divina. È un personaggio anche delle “Metamorfosi” di Ovidio che lo presenta come un pescatore che, mangiando un’erba che ridava vigore ai pesci da lui pescati, si trasforma in un dio marino.
Questo, ovviamente, è un esempio pagano; il poeta, invece, non ottiene questa trasformazione con un’erba magica, ma attraverso lo sguardo di Beatrice, nel quale si riflette la luce divina, cioè la grazia che scende sull’uomo.
Questa metamorfosi spirituale è indicata con il neologismo trasumanar, che letteralmente significa “andare oltre l’umano”. Per descrivere un’esperienza così oltre la normalità, come quella del Paradiso, non ci sono parole.
Dante non si accorge materialmente del volo progressivo che sta compiendo dal Paradiso terrestre verso la sfera del fuoco e di qui al cielo della Luna. La sua metamorfosi, la sua trasformazione è solo interiore.
Come si può notare la Divina Commedia è ricca di trasformazioni, cambiamenti che vanno dal mutamento nell’aspetto fisico fino alla metamorfosi spirituale.
Ovviamente non potevo raccontare tutti le metamorfosi che sono narrate nell’opera dantesca, perché sono veramente tante, mi sono limitata a descrivere quelle più di altre caratterizzano le diverse cantiche.