Pierluigi Finolezzi
Svegliarsi di buon mattino e, guardandosi allo specchio, scoprirsi diversi. Chi non ha mai vissuto sulla propria pelle una sensazione simile a questa? E a ciò aggiungiamo le parole di un padre o di una madre che, osservando il proprio figlio o la propria figlia, non riconoscendo più il frutto del loro amore, si domandano dove sia finito il loro bambino. Il figlio che gattonava sul pavimento di casa, che balbettando sillabava per le prime volte mamma e papà e che domandava cos’è e perché ammirando le meraviglie e le novità che lo circondavano non esiste più. Al suo posto uno sconosciuto alieno, desideroso di avventurarsi verso nuovi mondi e di fare nuove esperienze, un adolescente ansioso di crescere e nello stesso tempo imprigionato nelle sue inquietudini esistenziali che sul momento sembrano abissarlo nel nulla più totale. Quel bambino è forse improvvisamente impazzito, è diventato irriconoscibile, tende alle cose dei grandi senza cogliere i modi con cui risolverne le difficoltà, desidera viaggiare, vagare in mondi accarezzati mentre leggeva un libro o guardava un film, pronuncia per le prime volte il verbo innamorarsi, eppure nonostante tutto la sua non è una pazzia perché scoprirsi adolescenti non significa essere malati.
L’adolescenza è una grande catapulta che, innescando un cambiamento, ci fa alzare per la prima volta i piedi da terra e ci getta lontano in una realtà tutta nuova dove la parola d’ordine è coraggio e dove ognuno prende coscienza di sé e delle proprie capacità. L’adolescenza è dunque una prova di coraggio senza la quale l’uomo non può diventare adulto, è una tappa imprescindibile che ci stacca dalle mani dei genitori e ci spinge a compiere grandi cose pur senza incombere in qualche fallimento. È una prova di coraggio quella che la dea Atena chiede a Telemaco nel I libro dell’Odissea, quando il giovane figlio di Ulisse e Penelope, eroe ed esempio per tutti gli adolescenti, si lamenta della sua sorte sfortunata, quella di essere cresciuto senza un padre che ancora in fasce lo aveva abbandonato per andare a combattere sotto la rocca di Troia e di vedere ogni giorno una madre insidiata dai pretendenti Proci. Non devi più avere i modi di un bimbo, perché ormai non sei tale (I, 296-297) dice la dea dagli occhi di civetta a Telemaco, spronandolo ad armare una nave e ad andare alla ricerca di notizie su Ulisse e invitandolo, qualora avesse fallito nella sua impresa, di prendere il posto sul trono dello stesso padre, cacciando o uccidendo tutti i pretendenti (dopo aver compiuto e fatto ogni cosa allora medita nella mente e nell’animo come tu possa uccidere nelle tue case i pretendenti con l’inganno o affrontandoli: I, 293-296; Anche tu, caro, infatti molto bello e grande ti vedo, sii valoroso, perché ti lodi qualcuno dei posteri: I, 301-302). Paura e speranza assalirono il ragazzo in quella notte, mentre coperto da un vello di pecora progettava nella mente il viaggio ispirato dalla dea (vv. 443-444), la stessa paura e la stessa speranza di chi si appresta a calpestare il suolo di una terra ignota e necessaria. Ed è qui, sulle soglie dello sconosciuto che ognuno deve far uscire dal personale vaso di Pandora il valore insito nel proprio io e mettere in atto il consiglio della dea. Tu devi pensarci da te: dammi retta, va’ solca le onde, prendi il largo e naviga nella bellezza di quel mare che è la vita! Al termine del suo viaggio, Telemaco non riuscì a trovare il padre Ulisse, ma divenne egli stesso Ulisse, prese coscienza di sé, diventando l’adulto che cercava. Prendendo il largo con coraggio, si lasciò alle spalle la spiaggia dell’infanzia e solcò il mare della pubertà e dell’adolescenza, un’età fatta di ostacoli e difficoltà, ma capace di trasformare il bambino in un uomo. Ed è così che tutti siamo o siamo stati Telemaco, coraggiosi di solcare l’ignoto per diventare uomini completamente nuovi.