Monumento alla Rosa Bianca presso l’Università di Monaco di Baviera
di Lorenzo Plini
Nell’aprile del 1930 si concluse un evento importante se parliamo di resistenza non violenta. Dopo ben trecentoventi chilometri, percorsi rigorosamente a piedi, Gandhi assieme a 79 discepoli e a moltissimi dimostranti arrivarono nella città di Dandi, che si affaccia sull’Oceano Indiano. La marcia incominciò ventiquattro giorni prima, e passò alla storia come la Marcia del Sale, una manifestazione non violenta per protestare contro la tassa sul sale che nell’India facente parte del Commonwealth era un monopolio inglese. Gandhi diede vita a quella protesta civile per rivendicare il fatto che il sale era di proprietà del popolo indiano, e si inseriva al’interno di un sentiero tracciato dallo stesso Mahatma che doveva condurre il suo paese a liberarsi dai dominatori anglosassoni. Alla fine della marcia Gandhi fu arrestato dalle autorità e la protesta finì su tutti i giornali internazionali e persino su quelli britannici. Perché una marcia, come quella del sale, ebbe tanto risalto? Proprio perché non prevedeva l’uso della violenza, discostandosi in maniera netta da forme di protesta civile più comuni e dominate dall’elemento violento. Infatti, caratteristica principale della resistenza non violenta è soprattutto quella di non rispondere con la violenza nemmeno di fronte alla violenza stessa.
La resistenza passiva emerge soprattutto in contesti in cui ci sono oppressori e oppressi, dove la società è segnata da conflitti più o meno visibili. Ad esempio, contrariamente a quanto si possa pensare, non tutta la società tedesca abbracciò l’ideologia nazista. Anche, e soprattutto, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale ci furono forme di opposizione e di resistenza interna più o meno attive. Queste dovevano sopravvivere alla partecipazione restia del resto della popolazione e soprattutto alla Gestapo, che aveva proprio il compito di eliminare ogni forma di opposizione al regime. A guerra finita si contarono ben 130.000 tedeschi tra morti, incarcerati e mandati nei campi di concentramento perché accusati di essere degli oppositori al regime.
In un contesto così difficile, durante un conflitto che stava irrimediabilmente segnando tutto il mondo, nacque la Rosa Bianca (Weiße Rose). A Monaco di Baviera cinque studenti dell’Universität Ludwig Maximilian diedero vita a questo movimento di resistenza non violenta contro il nazismo, attivo fra il giugno del 1942 e il febbraio 1943. Si trattava di ragazzi poco più che ventenni: i fratelli Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, a cui si aggiunse in un secondo momento Kurt Huber, professore straordinario di filosofia e di etnomusicologia presso lo stesso ateneo.
Erano animati dalla fede cristiana, si ispirarono infatti al movimento giovanile cattolico Quickborn, fondato nel 1909 da padre Strehler in Slesia. Iniziarono la loro attività di resistenza non violenta diffondendo nell’università un piccolo foglio clandestino chiamato Windlicht (la lanterna), che conteneva dei saggi letterari e storici. Poi passarono a dei volantini che spedirono imbustati a indirizzi presi dall’elenco telefonico, soprattutto in Baviera e in Austria, zone a più alta fede cristiana e dove credevano che le loro parole avrebbero trovato ascolto. Scrissero in totale sei volantini, quattro dei quali solamente nel giugno del 1942, dalle mani di Hans Scholl e Alexander Schmorell, con l’aiuto di Christoph Probst e soprattutto di Sophie Scholl, incaricata di procurarsi i francobolli e le buste per le lettere. Scholl, Schmorell e Probst, proprio loro che furono inviati prima sul fronte francese, poi sul fronte russo con una compagnia di studenti-medici, e che prestarono servizio in vari ospedali da campo almeno sino al novembre del 1941. Loro che ebbero modo di vedere la guerra faccia a faccia, ma soprattutto le violenze e le crudeltà che i soldati tedeschi compirono nei confronti di ebrei, russi e polacchi. Con quei volantini, in cui affermavano che tutto quello che diceva Hitler non era altro che una menzogna, cercarono di smuovere la coscienza e l’umanità dei tedeschi, di far aprire loro gli occhi su una realtà che veniva sapientemente mascherata dalla propaganda del regime, preannunciando loro la disfatta totale alla quale stava andando in contro la Germania. Chiedevano ai tedeschi di disubbidire all’atea macchina del nazionalsocialismo attraverso un opposizione passiva, attraverso il sabotaggio delle industrie che producevano le armi per la guerra. Per fare ciò chiamavano in causa gli ideali di democrazia e libertà, affermavano che l’esasperazione dei nazionalismi aveva portato la guerra e perciò immaginavano una futura Germania federale all’interno di un’Europa federale – tema quanto mai attuale –.
Sorpresi dal bidello Jakob Schmid mentre distribuivano i volantini nell’università, Hans e Sophie Scholl furono arrestati dalla Gestapo il 18 febbraio 1943. Nei successivi quattro giorni furono interrogati, mentre la Gestapo metteva le mani anche su Christoph Probst, da poche settimane padre per la terza volta. Il 22 febbraio venne organizzato un processo farsa davanti al Tribunale del popolo, in cui il loro avvocato d’ufficio non fece nulla né per difenderli né per ottenere una pena diversa. Furono accusati di tradimento, di incitazione al sabotaggio delle industrie necessarie allo sforzo bellico, di favoreggiamento del nemico, di aver infamato il Führer, di aver propagandato idee disfattiste e di demoralizzazione delle truppe e per questo condannati a morte. Non furono rispettati nemmeno i novantanove giorni che si concedevano ai condannati a morte, e lo stesso 22 febbraio i giovani trovarono la morte per ghigliottina. Altri membri della Rosa Bianca furono catturati, processati e condannati a morte nei mesi successivi. Ma il ricordo della Rosa Bianca sopravvisse anche dopo la fine della guerra, vista come forma più pura di opposizione al regime nazista, tanto che nel 1986 a Monaco di Baviera venne creata con lo stesso nome una fondazione dai superstiti del gruppo e da amici e parenti di quelli che furono condannati a morte, allo scopo di far conoscere alle generazioni seguenti quel movimento di resistenza non violenta.