di Federico Battaglia
Nella notte del 24 marzo 1976 irruppe presso la Casa Rosada di Buenos Aires un commando formato da militari. L’obiettivo era quello di destituire l’allora Presidente della Repubblica Argentina Isabel de Perón, in carica dal 1974. Il colpo di stato venne organizzato dalle forze armate del Paese, con il sostegno di una parte della Chiesa cattolica. Nel giro di un giorno furono occupate le stazioni TV e radio, che vennero utilizzate dai golpisti per annunciare la fine dell’era Perón e l’inizio del “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. Il termine, fortemente voluto dai comandanti Videla e Massera, alludeva alla formazione di un nuovo governo con forti connotazioni autoritarie. Il potere, infatti, venne concentrato nelle mani di poche personalità, provenienti dagli Stati maggiori dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione.
Libera da qualsiasi vincolo governativo, la Giunta Militare applicò una politica improntata alla cancellazione dei diritti civili e all’introduzione della pena di morte. Si ricorse alla repressione clandestina e alla violenza privata, facendo scomparire nei modi più disparati decine di migliaia di persone. La giustificazione a questo linea di condotta venne ricercata nella difesa dell’Argentina contro le “forze sovversive”. Già durante la presidenza di Isabel de Perón, erano sorti diversi movimenti rivoluzionari tra i confini nazionali. Ispirati dall’esperienza guevarista e dagli ideali marxisti, molti giovani si organizzarono in formazioni armate che confluirono in un’unica organizzazione: l’Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP).
Contro le rivolte e gli attentati dell’ERP, le forze di polizia risposero con durezza, scatenando numerosi conflitti a fuoco. Ci furono delle sortite all’università, vennero colpiti anche i sindacati e i canali televisivi “di sinistra”. Il tutto mentre l’Argentina stava attraversando un periodo di forte stagnazione economica, causata dall’aumento del debito pubblico e dall’inflazione. La situazione disastrosa fece crollare la popolarità di Isabel de Perón che venne giudicata non più in grado di governare dalle forze armate.
Per questo motivo e per evitare la “dissoluzione naturale dell’Argentina”, i militari presero le redini del potere, rimuovendo la Perón e ponendola agli arresti domiciliari. Da quella notte fino all’inverno del 1983, si alternarono ben quattro governi che cercarono di realizzare il “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. Non mancarono sequestri, torture e delitti politici. Quella che scatenò la Giunta contro i dissidenti fu a tutti gli effetti una guerra. Una guerra che venne definita “sporca” per i metodi spietati che la contraddistinsero, riservati agli studenti e ai sindacalisti.
L’ondata di violenza, tuttavia, non venne portata avanti alla luce del giorno. I rapimenti e gli omicidi vennero organizzati in gran segreto, in modo tale da evitare qualsiasi fuga di notizie. Una lezione, questa, che la dittatura argentina apprese da quella cilena. La Giunta Militare Argentina voleva presentarsi come un governo conservatore e non incline alla violenza, al contrario del Cile di Augusto Pinochet, dove gli arresti “a cielo aperto” e gli stadi trasformati in campi di detenzione avevano gettato fango sull’esecutivo.
Tutte le persone che vennero giudicate “nemiche dello Stato” furono catturate e incarcerate con assalti improvvisi, effettuati con auto e blindati. Portati nei centri di detenzione, la maggior parte di proprietà della Marina argentina, vennero prima processati e poi torturati con docce fredde o elettroshock. Le donne, invece, furono costrette a subire pestaggi e stupri, alcune anche in stato di gravidanza. Ma la vera brutalità concepita dalla Giunta fu un’altra, quella dei “voli della morte”.
I voli, resi possibili dal coordinamento tra l’Esercito e l’Aviazione, seguivano un iter speciale, che iniziava al centro di detenzione. Qui gli ufficiali comunicavano ai prigionieri che sarebbero stati trasferiti in un carcere situato nel Sud del Paese, e che quindi sarebbero stati sottoposti a una vaccinazione per evitare il diffondersi delle malattie durante il volo. In realtà, quest’ultima consisteva in un’iniezione di barbiturici, che aveva lo scopo di addormentare le vittime, ma non di ucciderle. A questo punto i detenuti, vivi ma incoscienti, venivano spogliati, caricati su dei camion, trasportati al più vicino aeroporto militare e imbarcati sugli aerei. Dopo il decollo e dopo aver raggiunto un’altezza considerevole, venivano gettati in mare. L’impatto con la superficie era tale da provocarne la morte istantanea.
In tutto, vennero uccisi 30.000 dissidenti, per lo più giovani innocenti, la cui età andava dai 16 ai 25 anni. Ragazzi che scomparvero e che non fecero più ritorno a casa, ragazzi i cui corpi vennero o seppelliti in fosse comuni o ritrovati dalla guardia costiera nell’Oceano Atlantico. Delle circostanze che la dicevano lunga sulla repressione senza limiti della Junta, intenzionata ad annientare il nemico interno. Nonostante la segretezza delle sue azioni, il progetto fu comunque ostacolato da un gruppo di contestatrici: le Madri di Plaza de Mayo. Già dall’aprile 1977 qualcosa iniziò a muoversi, quando un nutrito numero di donne cominciò a riunirsi tutti i giovedì sera marciando intorno a Plaza de Mayo, la piazza centrale di Buenos Aires. Lo fecero per chiedere spiegazioni al governo sulla sorte dei propri figli, di cui nessuno sapeva nulla dal giorno della loro scomparsa. Con un fazzoletto bianco in testa, si presentarono più e più volte di fronte ai militari, mostrando centinaia di foto e cartelloni con i visi dei loro ragazzi stampati sopra.
La marcia cominciò a fare scalpore in tutto il Paese. Le emulazioni non mancarono, tanto da costringere la Junta a intervenire. La repressione portò all’arresto e alla morte di 720 madri, che, allo stesso modo dei loro figli, vennero sequestrate e uccise dopo un processo sommario. Caddero vittima della dittatura militare donne come Azucena Villaflor e Maria Ponce, colpevoli di aver cercato spiegazioni sulla salute dei propri cari. Con loro morirono anche due suore francesi, Alice Domon e Léonie Duquet, a testimonianza delle efferatezze compiute dai militari argentini, che non risparmiarono nemmeno i cittadini stranieri.
La protesta durò fino al 1982, l’anno dello scoppio della guerra delle Falkland. Il conflitto contro l’Inghilterra venne scatenato dal generale Leopoldo Galtieri, in quel momento a capo della Junta. Galtieri, vista la disastrosa situazione economica e la contestazione civile, decise di giocare la carta del sentimento nazionalistico per il possesso delle Isole Malvine, sotto il controllo britannico. La battaglia negli arcipelaghi vicino alle coste dell’Argentina si concluse, contro ogni aspettativa, con la sconfitta delle truppe argentine. Quella che doveva essere una vittoria facile e veloce si tramutò in una dolorosa disfatta che fece aumentare ulteriormente il dissenso interno. L’epilogo del “Processo di Riorganizzazione Nazionale” sarebbe arrivato entro pochi mesi.
Il fallimento della Giunta Militare, culminato con il ritorno alle elezioni presidenziali del dicembre 1983, pose fine all’esperienza dittatoriale. Un’esperienza che non aveva risollevato le sorti del Paese ma che, al contrario, lo aveva danneggiato ancora di più, trascinandolo in una spirale di violenza e di isolamento diplomatico. L’eliminazione degli oppositori, tuttavia, non placò la resistenza dei contestatori del regime, in particolare le Madri di Plaza de Mayo. Il loro infaticabile impegno fece uscire dall’ombra i soprusi dei militari e permise al nuovo Presidente dell’Argentina Raul Alfonsin di creare una commissione ad hoc per indagare sulle atrocità commesse dalla Junta.
Il processo che ne scaturì si tenne tra l’aprile e il dicembre del 1985. Furono chiamate a testimoniare diverse madri, a cui si aggiunsero i sopravvissuti alle torture. Dietro di essi vennero fatti sedere i generali e gli ammiragli coinvolti. Dopo aver ascoltato le prove portate dall’accusa e le deposizioni, la giuria emise una sentenza di ergastolo per Videla e Massera, i due protagonisti del golpe del 1976 e della successiva carneficina.
Malgrado le condanne, non tutti sono riusciti ad arrivare alla verità. Ancora oggi rimangono irrisolti numerosi casi, a causa del mancato ritrovamento dei corpi. I desaparecidos, chiamati così dalla commissione di Alfonsin, continuano a essere difficilmente rintracciabili. Una cosa, questa, che ha spinto le Madri di Plaza de Mayo a continuare la loro attività. Come si riunivano nel lontano 1977, così fanno anche adesso, incontrandosi tra le vie di Buenos Aires. Sono diventate dei punti di riferimento, il loro contributo è stato riconosciuto da tutta la comunità argentina, così come il loro simbolo, il fazzoletto bianco. Le madri che portarono i generali davanti a un tribunale, proseguono nel loro cammino, cercando di restituire a loro stesse e agli altri genitori i figli strappati dalla dittatura argentina.