Lorenzo Plini
Tra gli anglicismi che stanno lentamente trovando spazio nella nostra lingua, c’è quello di Public History. L’accostamento di questi due termini può lasciare perplessi: “storia pubblica”, nel nostro Paese, potrebbe dare adito a significati e interpretazioni fuorvianti. La più banale: la Storia è già di tutti, ne facciamo tutti parte, per molti aspetti è sempre intorno a noi. Di conseguenza, non può essere associata a qualcosa di privato né al concetto di proprietà. In questo caso, l’accezione Public intende una dimensione nuova per la Storia, una tendenza e una strada innovativa per la disciplina.
Il termine Public History nasce intorno alla metà degli anni ’70 negli Usa, in particolare all’Università della California a Santa Barbara. Lì due professori della facoltà di Storia – Robert Kelly e Wesley Johnson – crearono un corso post-laurea con l’obiettivo di formare i giovani storici per carriere alternative all’insegnamento, soprattutto nel settore pubblico e in quello privato. Questa esigenza, cioè quella di diversificare gli sbocchi occupazionali degli storici, nasceva di fronte alle difficoltà di arruolamento all’interno del sistema universitario americano ormai saturo. Ben presto questo genere di corsi si diffuse in tutti gli Usa, nel vicino Canada e da lì in Gran Bretagna e in tutto il mondo anglosassone. La Public History, però, non nasce dal nulla, molti storici già avevano avuto modo di lavorare in diversi settori del pubblico e del privato. Quindi, Kelly e Johnson andavano a formalizzare e a disciplinare quella tendenza che riguardava la Storia, dando la consapevolezza di ciò a chi già la praticava.
Quindi cos’è la Public History? Possiamo definirla come un movimento, che intende portare la Storia nel pubblico, a diretto contatto con esso, così da farla vivere in maniera più partecipativa e interattiva. Tutto ciò va anche a rispondere a un’accusa che è stata mossa alla disciplina storica. Cioè quella di essersi – a partire dal XIX secolo, quando diviene una disciplina scientifica dotata di una propria metodologia – sempre più rinchiusa all’interno di una “torre d’avorio”, osservando la società e il mondo dall’alto e da lontano, un mondo in continua evoluzione e a cui la Storia non riusciva a stare di pari passo. La conseguenza di questa reclusione sta nel considerare la disciplina storica – e tutto quello che rappresenta – come un qualcosa che appartiene solamente al passato, di non attuale, di slegato dalla società contemporanea nella quale viviamo, di poco appetibile, di qualcosa di cui si può fare anche a meno. Bene, la Public History è quindi un tentativo concreto della Storia di adeguarsi al mondo di oggi, di cambiarsi d’abito, di attualizzarsi senza però perdere le sue caratteristiche peculiari. Essa mira a portare fuori dalle università, dai musei, dalle biblioteche e dagli archivi la disciplina storica, verso un pubblico il più ampio possibile. Però il pubblico rappresenta un mondo molto eterogeneo, difatti ci sono molteplici pubblici ai quali parlare, quindi la Public History si è dovuta armare di altrettanti modi di risposta, così da riuscire a raggiungere ogni tipologia di pubblico.
A praticare la Public History sono i public historians, ovvero storici professionisti, dotati di skills trasversali, che abbracciano diverse discipline, per cui il mondo d’internet non rappresenta un tabù, e avvezzi a utilizzare diversi metodi di narrazione della Storia. La figura del public historian si discosta in maniera netta da quella dello storico classico, che si rivolge esclusivamente al mondo accademico, sempre rinchiuso nelle biblioteche e negli archivi per le sue ricerche, che lavora da solo, che utilizza come unico metodo di diffusione dei suoi studi il saggio o l’articolo su riviste specializzate. Il public historian, invece, raramente lavoro da solo, collabora con altre professionalità così da riuscire ad ottenere – ad esempio – filmati documentari, graphic novels, mostre fotografiche ecc. di ottima qualità. È in grado, inoltre, di confrontarsi con le istituzioni pubbliche alla ricerca di fondi e finanziamenti per i suoi progetti. Nonostante queste differenze, storico classico e public historian non sono figure antitetiche, bensì interscambiabili. Come la Storia cerca di adeguarsi al mondo in continua evoluzione, anche la figura dello storico cerca di proseguire su quella stessa strada. La metodologia della disciplina rimane intatta, a cambiare è la narrazione e il rapporto fra lo storico e il pubblico, nella convinzione (e nella speranza) che una parte della società desidera conoscere la Storia, al di là di quella che viene insegnata fra i banchi di scuola. Oltre a tutto questo, un altro compito di cui si fa carico la figura del public historian è quello di vigilare. Oggi con internet e i mass media chiunque può esprimere la sua opinione, e questa opinione può raggiungere milioni di persone. Questo è senza dubbio un fatto positivo, ma fra queste possono emergere visioni di parte o che lasciano adito a distorsioni e falsità, e che possono trovare terreno fertile. In gergo viene definito “uso pubblico della Storia”, il cui passo successivo è l’“uso politico della Storia”, quando ne viene fatto un uso strumentale della stessa.
Materialmente la Public History si manifesta in innumerevoli modalità. Quella della rievocazione storica (reenactment) sta acquistando sempre più importanza, anche a causa delle ricadute economiche positive che può portare al turismo e al commercio di un determinato territorio. È, però, un’arma a doppio taglio: nella rievocazione storica i cittadini partecipano in prima persona all’evento, spesso vestendo abiti dell’epoca, ma c’è il rischio di sottolineare troppo lo spettacolo a danno del discorso storico (rischio definito disneyfication). Ci sono poi i musei narranti o interattivi, ovvero musei dove i visitatori non si limitano a osservare oggetti rinchiusi all’interno di bacheche di vetro, ma interagisco attivamente con essi attraverso strumenti tecnologici e multimediali. I musei si prestano facilmente al gioco della narrazione messo in piedi dalla Public History, basti pensare alla Plymouth Plantation. È un museo di storia vivente fondato nel 1947 a Plymouth, in Massachusetts, dove è stato ricostruito l’insediamento originale della colonia di Plymouth fondata nel XVII secolo da coloni inglesi.
Si tratta di un museo all’aperto, dove gli abitanti – vestiti con abiti dell’epoca – sono persone che sono state addestrate a parlare, a comportarsi e a interagire con i visitatori come se vivessero realmente nel ’600. Per quanto riguarda il nostro bel Paese, dobbiamo dirigerci verso Lagopesole (PZ) con il suo castello-museo.
Stupor mundi: il mondo di Federico II, è un museo narrante che racconta la storia dell’imperatore svevo all’interno del castello, che fu sua residenza estiva e di caccia. Il ventaglio a disposizione della Public History comprende anche documentari storici, film, mostre fotografiche, festival di storia, viaggi della memoria, la storia orale (cioè la raccolta delle fonti orali, dei racconti degli individui), spettacoli teatrali ecc.
Abbiamo già accennato alla diffusione della Public History a partire dalla metà degli anni ’70, una diffusione che è andata avanti a tappe: nel 1979 abbiamo la creazione negli Usa del National Council of Public History (NCPH), e solamente nel secondo decennio del nuovo secolo abbiamo la fondazione dell’International Federation for Public History (IFPH), e nel 2016 la nascita dell’Italian Association of Public History (IAPH). Contemporaneamente viene pubblicato il manifesto della Public History italiana, e organizzati congressi annuali dove vengono presentati poster e progetti. Questa attenzione del nostro Paese verso la Public History viene testimoniata anche dalla creazione di corsi e master universitari orientati verso questa nuova disciplina e verso le grandi potenzialità che può esprimere in un Paese come l’Italia, che può vantare uno dei più vasti e ricchi patrimoni culturali al mondo.