Renato DE CAPUA
Esce oggi, per la casa editrice “Interno Poesia”, “Profezia blu”, il nuovo poema di Valerio Grutt. Partendo da una situazione realistica, l’opera apre spiragli inattesi e trasforma le pagine in un intimo colloquio con sé stessi, alla ricerca della propria anima.
La parola poetica come narrazione di un mito, delle segrete istanze del cuore dell’uomo. È caratteristica della poesia essere lume, non temere l’addentrarsi tra una moltitudine di visioni, occultate da una notte fonda. Si muove in virtù di questo sentire la poesia di Valerio Grutt, poeta originario di Napoli e già autore di diverse raccolte poetiche; annoverato tra gli autori che compongono il volume “Poesie dell’Italia contemporanea” (Il Saggiatore, 2023), Grutt inizia il suo percorso artistico, sperimentando i linguaggi del rap e della musica elettronica, per poi passare all’arte visiva. Senza mai perdere il contatto trasversale con le varie discipline artistiche, la poesia è la sua voce. E oggi, per la casa editrice pugliese “Interno Poesia”, esce “Profezia Blu” (disponibile nelle migliori librerie e store online e sul sito della casa editrice https://internolibri.com/libro/profezia-blu/ ), nuova opera dell’autore, nonchè 40mo titolo della collana “Interno Versi”. Il poema è ambientato all’interno dell’antro della Sibilla Cumana, galleria di epoca greco-romana, presso l’antica città di Cuma, in Campania. La tradizione narra che la sacerdotessa italica, citata nel VI libro dell’“Eneide”, presiedeva i culti di Apollo e di Ecate, trascrivendo i suoi vaticini in esametri su foglie di palma. Alla fine della predizione, le foglie venivano mischiate dai venti, rendendo i vaticini “sibillini”, ovvero, di dubbia interpretazione.
L’ “Antro della Sibilla” è oggi un sito archeologico e fa parte del Parco Archeologico dei Campi Flegrei di Napoli. L’intreccio del poema parte dall’oggi: un uomo, senza apparente motivo, abbandona i festeggiamenti del matrimonio di due amici per raggiungere il mitico antro dell’oracolo, luogo dalla storia millenaria, misterioso, magico e incantato, dove la leggenda ha creato una barriera, quasi uno scudo, per lasciare inviolato l’alone di leggenda che lo ammanta; è lì è udibile una voce, che si allarga e si spande per la via. C’è una stazione dove un treno non giunge, come quelle promesse che la realtà disattende. La vita pulsa forte; un’upupa indica il sentiero da seguire “per entrare nel bosco sacro”. C’è poi la saggia e ferma presenza del mare, che ha toccato ogni sponda del mondo e invita gli uomini a scoprire, ad avventurarsi in nuovi camminamenti. Le sue acque, un misto di luoghi e di memorie: è il tempo che diviene materia acquatica, forse per essere ancor più fluido e correre veloce. Il grande blu, tonalità predominante nell’opera, è quindi, via per altri mondi, luogo in cui si perdono le nuvole. Anche a noi che siamo sulla terraferma, l’opportunità di scoprire nuovi luoghi, o, meglio, di scoprirci nuovi attraverso essi. Ecco che l’antro della Sibilla diviene familiare, reliquiario di ricordi: “è come una casa/che abbiamo abitato”, di cui conosciamo gli spazi e sulle cui superfici s’intravedono i contorni di quelle cose che hanno condiviso con noi un tratto di strada, talvolta illanguiditi e poco marcati, ma pur sempre presenti e sfiorati dalla luce. L’immagine della casa, simulacro dell’accoglienza, della perdita, dell’abbandono, rinvia al corpo. La sua dimensione è la profondità: al suo interno, dedali di strade s’incrociano, confusi perché non conoscono la meta. È la situazione analoga degli sguardi che, immersi nella folla, sembrerebbero per un attimo voler dialogare, ma riprendono decisi la loro marcia. Il mito racconta che la Sibilla sedesse al centro della sala e che molti uomini, venuti da lontano, portassero al suo cospetto il loro “bagaglio/di dolore”. Interrogate le ombre, il responso aveva una voce di foglie, come un fremito, uno stormire. E nella non piena afferrabilità del senso delle parole, lo sguardo avrebbe voluto rifugiarsi in un ricordo, specialmente quando la realtà irrompe con i suoi quesiti. Perché abbandonare di colpo i festeggiamenti del matrimonio di un amico per recarsi in un altro luogo senza nemmeno sapere cosa chiedere? Ma in un attimo, come può esserlo l’inatteso, le domande affiorano: identità, nessi causali, sentimenti, rimpianti; è tutto un girovagare “negli uffici della mente”. La parola diviene preghiera e chiede se è vero “che la morte non divide/ma solo allontana/per un pezzo di strada/chi si ama”. Alle domande segue il silenzio, poi tutto l’antro risuona, agitato dal vento. Tutto inizia a essere più chiaro. La parola passa all’oracolo, ai suoi vaticini. “Il cuore impazzito/parla col buio/ lo vuole amico”, come “un filo d’erba/ […] cerca altri fili d’erba”. È il meccanismo di un’umanità cieca, che “non vede nel riflesso/del sole sul vetro/altro che un riflesso/del sole sul vetro”. Il poeta vuole sciogliere ogni nodo, offrendo l’apprendistato del suo corpo affinché tramuti il dolore il canto. E cerca il padre e la madre, arrancando tra il bagliore fendente di una luce. Canta Napoli con i suoi rumori, la sua frenesia, le voci di quartiere. Di tutto rimangono poche grandi certezze. La vita è un grande albero e sparge tanti piccoli semi; l’amore, un filo che non si spezza. Nel sentimento che muove il mondo, la tristezza di un addio, la certezza di un ritorno; la bellezza di una poesia, quella che è stata scritta per te, quella che leggi sempre.