Adele Errico
“Mi ricordavo di mio padre che diceva sempre che la ragione per cui si viveva era per prepararsi a restare morti tanto tempo”. Ai pensieri di Addie Bundren, in Mentre morivo di William Faulkner, è dedicato un solo capitolo. E questo pensa Addie mentre se ne sta seduta alla sorgente ad odiare in silenzio i suoi figli e il marito Anse. E pensa che sia quello il modo migliore per prepararsi a restare morta: lasciare che quei pensieri – che tali devono restare, che non possono prendere forma nel suono della voce – le ribolliscano nel sangue, sepolti sotto uno strato di epidermide, frementi nelle ore di solitudine. È costretta ad averli davanti agli occhi, giorno dopo giorno e, mentre si prende cura di loro, mentre pulisce il loro naso sporco, pensa che quello che scorre nelle loro vene non è il suo sangue; il loro sangue è estraneo al suo e con quei pensieri si prepara a restare morta. L’inizio del suo percorso verso la morte è la prima gravidanza: “E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile”. E ancora una volta, alla nascita del secondo figlio, Darl, è la morte che le viene in mente e si fa promettere da Anse di essere sepolta nella sua città d’origine, Jefferson. Ogni pulsione di vita in Addie Bundren si trasforma in pulsione di morte. La maternità tanto odiata ad altro non le fa pensare che alla morte, l’inizio di una nuova vita evoca in lei la fine. Pensa che avrebbe solo voluto ammazzare Anse, perché si sente ingannata, si sente tradita, come se l’avesse nascosta “dentro un paravento di carta e attraverso quello mi avesse colpita alle spalle”. Ancora un figlio, ancora uno sconosciuto in grembo di cui dovrà occuparsi e portare avanti insieme agli altri spingendoli attraverso il flusso del suo sangue. E poi perché trovarle una parola a questa vita che prende forma nel grembo, perché preoccuparsi di darle un nome? Alla nascita del primo figlio si rende conto che la parola “maternità” è stata inventata da chi figli non ne aveva mai avuti, perché a chi li ha avuti non importa se c’è una parola o no. E c’è poi una parola che Anse usa per esprimere quello che prova per lei: “amore”. Ma per Addie le parole sono solo una forma per riempire un vuoto. Sono solo strumenti che servono per entrare in contatto con gli altri, che non corrispondono mai a quello che tentano di dire e che ci tengono “appesi per la bocca come ragni ad una trave, che oscillano e si attorcigliano senza toccarsi mai”. Le parole Anse e Amore si sovrappongono e quando Anse le giace accanto, la notte, nell’oscurità della stanza, non sa, in realtà, che per lei è come morto. Immobile sta al suo fianco mentre la terra sotto di lei si mischia al suo sangue e alla sua carne. Nei suoi occhi, che riflettono il buio del soffitto, le parole Anse e Amore sono come recipienti che si riempiono e il liquido prende la forma del recipiente in cui viene versato; e non ha importanza, per Addie, se la parola sia Anse o Amore, perché per lei fa lo stesso. Tutto quello a cui riesce a pensare è comunque la fine. La frase del padre che riemerge nella memoria di Addie richiama l’ipotesi che Freud esprime in Al di là del principio di piacere ovvero che lo scopo di tutta la vita è la morte. Per esprimere questo concetto, questa inesorabile destinazione che ha la vita, Freud si serve di due termini: Eros e Thanatos, rispettivamente pulsione di vita e pulsione di morte, nascita e distruzione. Uno sguardo psicanalitico ai pensieri di Addie metterebbe in evidenza la lotta violenta tra le due pulsioni, l’istinto di cambiamento e sviluppo, progresso e produzione, contro il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo. L’amore che Addie non riesce a provare nei confronti dei figli e di Anse si trasforma in pulsione di morte, attesa della distruzione. Thanatos vince su Eros. Ogni figlio da lei messo al mondo non è altro che un passo in più verso quel letto di morte sul quale giace all’inizio del libro, circondata proprio dagli stessi figli e dal marito che le hanno preparato la strada verso quell’esatto momento. E se li porta tutti dietro, fino alla fine, fino al momento della sepoltura, nell’assurdo viaggio verso Jefferson dove tutti i Bundren sono diretti per onorare la memoria della madre. Nella tomba, Addie porta con sé tutto l’Eros, la passione, la devozione materna, l’amore incondizionato che non è riuscita a provare per i suoi figli dal momento della nascita e che ha mantenuto fino alla fine, tuttavia crescendoli, curandoli, sentendoli appartenere unicamente a lei. Se li porta dietro, con i loro tormenti, con i loro drammi, chiusa nella bara che il primogenito le ha costruito, dentro il riquadro di una finestra dalla quale lei, distesa muta e immobile sul letto in attesa della morte, lo osserva martellare sulle assi di legno.
Osserva il lavoro di quel figlio che per la prima volta le ha fatto pensare quanto vivere fosse terribile, facendola sentire pronta per la fine. E proprio quel figlio le prepara la sepoltura, le prepara l’involucro nel quale riposare dalle fatiche della maternità.
C’è un dipinto di Egon Schiele che si intitola “La madre morta”. In questo dipinto la figura della madre avvolge come un mantello l’utero in cui si trova il bambino, da lei separato dal manto nero. La luce che il bambino emana resta relegata al grembo materno mentre tutto intorno è nero, la madre è prostrata nel suo lutto, il volto terreo e legnoso ha perso ogni fiamma vitale. Quella madre è Addie, che porta su di sé il peso del lutto per se stessa, per la propria stessa morte, mentre i suoi figli si formano dentro di lei. Sono suoi, ma tenuti a distanza, come se il suo grembo fosse un distaccamento del suo corpo, come se lei non lo avvertisse, come se fosse un buco. Partorendo, uno dopo l’altro, i cinque figli, non fa che prepararsi alla morte. La pulsione di vita che si identifica con Eros nella figura di Addie non smette di esistere ma, semplicemente sfocia nel suo naturale completamento, Thanatos, tenendo i figli legati tra loro e a lei non in virtù dell’amore ma della pulsione di morte che ne deriva.
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