di Federico Battaglia
Tra il 1894 e il 1906 la Terza Repubblica francese si ritrovò divisa in due differenti schieramenti: i “dreyfusardi” e gli “antidreyfusardi”. I primi, per lo più intellettuali e repubblicani, difendevano strenuamente l’innocenza dell’ufficiale Alfred Dreyfus, i secondi, invece, sostenevano la sua colpevolezza e appartenevano alla frangia più conservatrice della società transalpina, quella ecclesiastica e filomonarchica. I contrasti che ne seguirono scossero profondamente le istituzioni nazionali e gli alti vertici governativi. La polemica sulla condanna di Dreyfus portò vari ministri a dimettersi, creò nuovi equilibri e raggruppamenti politici e causò addirittura un tentato golpe. Tutte queste conseguenze risposero ad un generale stato di tensione che perdurò fino al 1906, all’anno in cui la Cassazione francese annullò la sentenza contro Dreyfus. Il capitano alsaziano fu successivamente reintegrato nell’esercito, ponendo fine alla controversia sulla sua colpevolezza. La riabilitazione, però, non fu sufficiente a risollevare una situazione che si presentava irrimediabilmente compromessa. Ma prima di parlare degli effetti nefasti dell’affaire è necessario descrivere gli eventi che più riguardarono lo scandalo giudiziario e che segnarono i sentimenti di una nazione, ai tempi, alquanto disorientata.
Ufficiale dell’esercito francese, Alfred Dreyfus iniziò la carriera militare nel 1880. Di famiglia ebraica, il giovane alsaziano si distinse sin da subito negli studi. Nel 1892 riuscì ad ottenere il brevetto di ufficiale di Stato maggiore, titolo che gli permise di entrare al Comando del corpo l’anno seguente. Le sue origini e la sua estrazione benestante gli procurarono, tuttavia, non poche difficoltà. L’ambiente militare francese di fine Ottocento era, infatti, un ambiente fortemente ostile alla partecipazione di ufficiali ebrei. Nonostante si differenziasse dall’antigiudaismo classico di matrice cristiana, l’antisemitismo nella Terza Repubblica fu comunque spietato con la comunità ebraica. L’odio verso la supposta “razza” giudaica interessò non solo le Forze Armate ma si insinuò anche in altri settori della società, compresi quello giornalistico e quello politico. Si trattò, a tutti gli effetti, di un’avversione quasi generalizzata che di lì a poco sarebbe esplosa, andando a segnare la vita di un innocente.
Nell’autunno del 1894 il Comando del corpo di Stato maggiore venne in possesso di un documento costituito da una lettera anonima e senza data, nella quale un ignoto ufficiale francese dichiarava d’inviare al destinatario cinque documenti su alcuni segreti militari. Tale foglio, il bordereau, fu rinvenuto in pezzi tra i residui della carta straccia dell’Ambasciata tedesca a Parigi. Un fatto, questo, che fece sorgere delle forti preoccupazioni dato che la Germania rappresentava la principale minaccia alla sicurezza nazionale e l’antagonista numero uno nel contesto geopolitico. Il documento venne immediatamente analizzato, partendo dalla perizia calligrafica e dal confronto con la scrittura di alcuni ufficiali appartenenti allo Stato maggiore francese, tra cui il capitano Alfred Dreyfus del 14° reggimento di artiglieria. I servizi segreti notarono delle somiglianze con il modo di scrivere del militare di Mulhouse che venne deferito al Consiglio di guerra, sotto l’imputazione di alto tradimento.
Nonostante gli ottimi precedenti dell’imputato, le sue proteste d’innocenza, la mancanza di testimonianze e il disaccordo tra gli esperti sulla calligrafia, Dreyfus fu giudicato colpevole “di avere consegnato a una potenza estera o ai suoi agenti documenti interessanti la difesa nazionale e avere avuto intelligenze con questa potenza, al fine di impegnarla a commettere ostilità contro la Francia”. La condanna che ne seguì lo vide prima degradato e poi deportato all’isola del Diavolo, nella lontana Guyana francese.
Il processo incontrò il favore di tutto il paese che, agli inizi della vicenda, sembrò non dubitare della colpevolezza di Dreyfus e della legalità dei procedimenti giudiziari seguiti. Tolta l’azione intrapresa dalla moglie e dal fratello dell’accusato, nessuno si espresse sul caso che aveva condotto all’arresto dell’ufficiale ebreo.
Nel maggio 1896 emersero, però, ulteriori dettagli sul caso. La scoperta di un nuovo documento obbligò le autorità a rimettere in causa l’affaire. Si trattava di una lettera-telegramma delle poste francesi, indirizzata al maggiore di fanteria Ferdinand Walsin-Esterházy, di nazionalità franco-ungherese.
Nella lettera, anch’essa proveniente dagli uffici dell’ambasciatore tedesco, si faceva riferimento ad una “questione in sospeso” non meglio precisata. Dopo esserne venuto in possesso e dopo aver letto il nome del maggiore, il tenente colonello Georges Picquart, capo dell’ufficio informazioni dello Stato maggiore, avvisò i suoi superiori che la calligrafia di Esterházy combaciava perfettamente con quella del bordereau. La sua proposta di prendere dei provvedimenti verso quest’ultimo venne però respinta dall’Alto comando che, vista l’ostinazione di Picquart nel far presente le sue perplessità, scelse di trasferirlo in Tunisia.
L’allontanamento del colonnello non impedì, comunque, la fuga di notizie. Il fratello di Drefyus, venuto a conoscenza della lettera indirizzata ad Esterházy, lo denunciò quale autore del bordereau. L’inchiesta condusse all’istituzione di un Consiglio di guerra che diede inizio al processo. Purtroppo, l’udienza si chiuse con una sentenza d’assoluzione che scatenò l’opposizione da parte dei “dreyfusardi”. Èmile Zola, in accordo con altre personalità di spicco della Sinistra francese, Jaurès e Clemenceau su tutti, decise di pubblicare sull’allora quotidiano L’Aurore una lettera indirizzata al presidente della Repubblica. Sotto il titolo “J’accuse”, egli contestò, documentale, tutte le illegalità commesse nelle procedure giudiziarie fino a quel momento. La risposta del governo e del Ministero della guerra portò al deferimento di Zola per il reato di diffamazione e all’arresto di Picquart, più tardi processato per essere venuto in contatto con lo scrittore parigino.
A seguito della reazione governativa, si ebbe l’impressione che non ci potessero essere altre speranze sulla risoluzione dell’affaire Dreyfus. Contro ogni aspettativa, la via verso la revisione del processo venne spianata da un fatto drammatico: la confessione del tenente colonnello Hubert Henry. Quest’ultimo, poco prima di suicidarsi, confessò di aver falsificato una delle prove schiaccianti. Quello che accadde dopo cancellò ogni dubbio sull’innocenza di Dreyfus. Il capo di Stato maggiore Boisdeffre e il ministro della guerra Cavaignac si dimisero e, come se non bastasse, Esterházy fuggì in Inghilterra.
Indotta dall’estremo gesto di Henry, la Corte di Cassazione ordinò la creazione di un’inchiesta supplementare che portò all’annullamento della sentenza del 1894 e all’istituzione di un nuovo Consiglio di guerra. Questo si riunì nell’estate 1899 a Rennes ed emise un’ulteriore condanna nei confronti di Dreyfus, lì presente, a dieci anni di detenzione. Pochi giorni dopo, però, a placare le innumerevoli contestazioni che vennero a galla per il verdetto, il presidente della Repubblica Èmile Loubet accolse il ricorso di grazia per l’ufficiale alsaziano.
Ad ogni modo, ci vollero altri sei anni per individuare in Esterházy il solo autore del bordereau. Il 12 luglio 1906 si ebbe la sentenza definitiva della Cassazione che cancellò il giudizio di Rennes e stabilì che la responsabilità dell’accaduto fosse esclusivamente del maggiore di origini ungheresi. Il capitano Dreyfus fu così reintegrato nell’impiego militare.
La conclusione dell’affaire Dreyfus non rappresentò, tuttavia, il capolinea della vicenda. Durato ben dodici anni, lo scandalo continuò a dividere gli animi dei cittadini francesi. Una tendenza, questa, che non fu nulla se rapportata alle ripercussioni che si ebbero sulla politica interna e sulla politica estera della Terza Repubblica. Gli intrighi, le lotte e le deviazioni che maturarono durante lo svolgimento dei processi influenzarono il modo di porsi e le scelte di numerosi partiti e dei propri elettorati. Le correnti conservatrici e le alte sfere militari persero di prestigio, andando a privilegiare le forze radical-socialiste che ebbero buon gioco nell’ottenere il potere alle Camere. Tutto ciò avvantaggiò sensibilmente il processo di laicizzazione delle istituzioni e della vita pubblica che furono riformate dagli elementi della Sinistra che più si erano spesi a favore della causa di Dreyfus.
Quello che colpì il capitano di Mulhouse non fu solamente un complotto ordito da qualche ufficiale ma costituì un caso di portata nazionale. La crudeltà con la quale la Francia accolse la notizia del “traditore ebreo” sconvolse l’opinione pubblica europea e fornì una chiara dimostrazione su quanto la nazione fosse vicina alle teorie antisemite dell’epoca. Anche quando emersero delle prove lampanti in molti rifiutarono di vedere la realtà e di schierarsi sulle posizioni dei repubblicani, decisivi nel mobilitare gli innocentisti a Parigi e in varie altre zone del paese. Dreyfus fu la vittima della frustrazione di un popolo intero, ancora memore delle disfatte militari del 1870. Dopo aver perso l’Alsazia e la Lorena a scapito della Germania, la Francia fu pervasa da un sentimento fortemente nazionalista e di rivincita nei riguardi dell’Impero tedesco. Questa condotta, unita all’odio verso la “razza giudaica”, scatenò il rancore di milioni di persone che si ritrovarono ad accusare un padre di famiglia la cui sola colpa era quella di essere un ebreo.