di Roberto Molle
Ho in mano il cd dell’ultimo album di Fabrizio Tavernelli (Taver per gli amici e fan di vecchia data), il quinto del suo percorso solistico, forse quello dal titolo più inquietante: Homo Distopiens. La prima cosa che salta agli occhi è l’immagine in copertina: lui legato a un’asse, lo sguardo spento e rassegnato, i colori saturi come in un affresco del Caravaggio. Uscito poco meno di un anno fa, quando la pandemia iniziava a serpeggiare, Homo Distopiens custodisce scenari inquietanti e originali trame sonore. Tranne un primo ascolto (durante un viaggio) ho aspettato a lungo prima di immergermi nelle atmosfere dell’album, che già sapevo mi avrebbero turbato… nel bene e nel male.
Inserisco il dischetto nel lettore e ho un flash che mi riporta indietro di una ventina d’anni e mi fa ricordare perché io consideri il suo autore uno dei migliori musicisti (ma forse sarebbe più giusto dire songwriter) italiani. All’epoca era il front-man degli AFA (Acid Folk Alleanza), che tra le tante esperienze è stata per Taver quella più importante; Nomade Psichico, loro penultimo album pubblicato nel 1996, è considerato uno dei più innovativi degli ultimi trent’anni nel panorama italiano, per l’uso di suoni manipolati e l’elevata intensità poetica dei testi. Nel tour di presentazione di Armonico – ultima uscita discografica per gli AFA – fu inclusa una tappa a due passi da casa mia. Ci andai, la location del concerto era una piccola piazza e il suo svolgersi era stato possibile grazie ad alcuni ragazzi illuminati del posto. Alla fine del concerto raggiunsi il backstage e scambiai quattro chiacchiere con Taver, si parlò della splendida esperienza del Consorzio Produttori Indipendenti arrivata oramai al capolinea.
Il C.P.I. era una sorta di factory creata da Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni (entrambi CCCP prima e CSI poi) e Gianni Maroccolo (ex Litfiba poi con CSI e PGR) che ha dato la possibilità a tanti gruppi e singoli musicisti di realizzare i propri dischi; oltre agli AFA: Üstmamò, Estasia, Marlene Kuntz, Yo Yo Mundi, Marco Parente, Santo Niente, Andrea Chimenti e tanti altri. Fabrizio, regalandomi una copia del disco, mi raccontò che dovevano sbrigarsi a raccogliere tutto e ripartire al più presto per Correggio, la mattina dopo alcuni di loro dovevano rientrare al lavoro. La cosa mi colpì molto, ricordo che mi sembrò assurdo il fatto che musicisti relativamente conosciuti e responsabili di uno dei dischi più originali e apprezzati del periodo, non potessero vivere della loro musica.
Tornando a Homo Distopiens e al suo ascolto, forse l’ho rimandato il più a lungo possibile nella speranza di poterlo tenere come antidoto, ultima spiaggia del pensiero di fronte a una realtà distopica che (dominata da un virus che in poco tempo ha mietuto centinaia di migliaia di vittime) avanza inesorabilmente a fagocitare ogni forma di utopia immaginata.
Questo quinto album di Fabrizio Tavernelli è stato realizzato come i precedenti, grazie a un crowdfunding; libero e indipendente da ogni costrizione di mercato o di classifica. Un concept-album coraggioso che affronta tematiche affascinanti e terribili, che si interroga su questioni ancestrali e urgenze attuali: il clima, l’ecosistema, l’umanità.
Nelle note alla presentazione al crowdfunding Fabrizio scrive:
Nei secoli abbiamo immaginato società distopiche, sorte dopo disastri ambientali e guerre nucleari, o abbiamo descritto regimi autoritari, oppressivi, sorti per reprimere le libertà individuali, le espressioni artistiche, la speranza di un futuro. Oggi questo immaginario negativo si è affacciato sulla nostra realtà e in un certo modo stiamo vivendo in tempo reale la nostra distopia tra politiche e tendenze sociali pericolose, tra foreste che bruciano, tra scioglimento di ghiacciai e riscaldamento globale.
Viviamo la possibile fine del pianeta. Il terrore e il fascino si mescolano e vanno a permeare ogni settore della cultura, dai saggi filosofici alle serie televisive. La dittatura tecnocratica si è trasformata in un incubo irrazionale dove l’alta finanza è ormai una delirante setta religiosa e la tecnologia della rete ci ha mostrato una nuova era oscura. Viviamo in un perenne stato ansioso, in tensione per qualcosa che potrebbe arrivare: un asteroide che colpisce la terra, un’invasione aliena o il cataclisma definitivo. Intanto una elìte sta facendo progetti per lasciare il pianeta. In un certo modo siamo intenti a scrivere, sceneggiare, comporre la contemporaneità mentre si dissolve.
Dopo l’Antropocene rimarranno solo specie capaci di sopravvivere in condizioni di vita estreme, ci saranno mutazioni, ritorneranno virus rimasti congelati per millenni, forse rimarranno solo le macchine, i robot che già stanno sostituendo gli umani in un mondo governato dagli algoritmi.
L’Homo Sapiens ha manipolato il mondo attraverso la scienza, la filosofia, la mitologia e la religione. L’era dell’Homo Sapiens è alle nostre spalle, davanti potrebbe esserci il nulla.
L’Homo Distopiens osserva in alta definizione lo spettacolo della sua stessa sparizione.”
Scenari e previsioni devastanti, futuri terribilmente incerti, individui in dissoluzione. Non c’è dubbio, quello che sconvolge è il sentire tutto questo così vicino, l’essere a un passo dalla catastrofe totale e osservare tutto quasi con distacco, come se la fine fosse inevitabile.
Si diceva del fatto che Homo Distopiens potrebbe turbare, nel bene e nel male. Nel male per la chiara consapevolezza (semmai ce ne fosse ancora bisogno) verso cui inevitabilmente spinge, nel bene perché è fatto di suoni e di voci che scuotono e mettono in circolo barlumi di pragmatismo e danno la stura a grumi di sentimento addensati nelle cavità ostruite del cuore.
Un album musicale che diventa presa d’atto dello stato di salute di un pianeta-ecosistema che rischia di implodere ancor prima di esplodere, ma anche della possibile salvezza legata al fatto che niente, in fondo, è del tutto perduto. L’Homo Sapiens può ancora fare in tempo a combattere la distopia con l’ultimo anelito di utopia? Un primo segnale può arrivare da un dischetto di plastica, ma i prossimi dovranno venire dalle regole che l’umanità dovrà darsi.
In apertura di album c’è Cose sull’orlo, un j’accuse senza sconti all’inquinamento crescente causato dall’uomo nei confronti dell’ambiente, alla quantità di plastica riversata negli oceani, alla deforestazione, agli uccelli soffocati dalle ceneri che si levano dai roghi dolosi dell’Amazzonia.
A seguire Distopia muscolare, una ballata venata di oscurità dove la natura torna a riprendersi la supremazia e a vendicarsi ineluttabilmente dell’uomo. Dopo niente sarà più come prima: l’umanità sarà costretta a cercare altri mondi possibili per poter sopravvivere. Tormentoni e tormenti s’insinua su una base di synth e si distende su atmosfere new wave. Il testo si concentra sulla massificazione venuta a crearsi intorno alla musica e a tutte le implicazioni che il suo consumo produce. Strereotipi, tendenze e tormentoni estivi che contribuiscono a omologare usi, constumi e comportamenti.
Se c’è una Wuhan ipotizzata prima che il virus cominciasse a diffondersi, mi piace immaginarla come il posto descritto in Lune cinesi, uno dei brani più toccanti di Homo Distopiens. Oscurità e mistero si intrecciano nella narrazione; il freddo dell’intro nella voce di Taver si addolcisce fino a trasmutare in melodia, capace di sciogliere acredini e far ripartire il cuore.
I brani seguono e scivolano via senza caduta di tono, uno più bello dell’altro. Da Spire, soffice ballad con rimandi a dimensioni prog fino a Oumuamua (introdotto dal coro della Cappella Musicale San Francesco da Paola di Reggio Emilia), mistica invocazione alla ricerca disperata di un segnale, un punto fermo a cui aggrapparsi in tempi di grandi incertezze. Chi siamo, da che mondo proveniamo e, soprattutto, cosa resterà quando non ci saremo più, è il gioco di parole intrecciato a flebili sonorità intimiste in Il mondo senza noi. Le sfumature agrodolci della voce di Taver rincorrono la viola di Osvaldo Loi in Secondo fine e la poesia esplode, onirica, nelle liriche de L’uccello giardiniere. Di tanto in tanto riecheggiano passaggi di brani lontani legati da un fil rouge che tiene insieme schegge del corposo songbook che va dalla primordiale esperienza degli En Manque D’Autre (prima band di Fabrizio Tavernelli) fino agli AFA, passando per le altre esperienze minori ma non meno importanti (da Groove Safari a Duozero, Ajello e Babel).
Il trittico finale del disco è costituito dall’ ipnotica Pessimismo co(s)mico, dalla criptica Ruscarola cantata in dialetto emiliano e, a chiudere, Bargigli e pappagorge. Dai toni elegiagici il brano, dolente, scivola su un tappeto fatto di sonorità psico-noise che si perpetuano inquietanti fino all’ultimo solco dopo aver sbaragliato le parole.
Homo Distopiens è un disco che cresce ad ogni ascolto e proietta istantanee che trasudano emotività e tensione, specchio reale del mondo che stiamo vivendo. A tal proposito mi tornano in mente le parole di Giovanni Lindo Ferretti pronunciate un po’ di anni fa in occasione dell’uscita dell’album Linea gotica: “In molti mi dicono che il disco è oscuro, la musica è cupa e le parole sono come carta vetrata scivolata nella gola… mi sento di rispondere che non ci posso fare niente, i tempi che stiamo vivendo offrono questo, e questo gli artisti tirano fuori”.