di Lorenzo Plini
In Clinamen – periodico di cultura umanistica n. 5, pagg. 32-34.
Il bisogno di racconti e di storie è un tratto che accomuna tanto i primi uomini quanto l’uomo moderno, anche oggi nell’era di internet e degli smart phone. In passato, attorno ai primi fuochi accesi nelle grotte, quegli stessi racconti e storie divennero ben presto il luogo per la nascita di miti, divinità e spiriti che popolavano la loro immaginazione, e rappresentavano anche un primo tentativo di spiegazione della realtà che li circondava. Ecco, proprio l’immaginazione è un elemento decisivo, la capacità di immaginare luoghi, persone e situazioni mai viste né mai vissute o che non esistono affatto, è un tratto fondamentale dell’uomo, uno di quelli che ci contraddistinguono. Le storie e i racconti prima trasmessi con la parola, iniziarono ad essere disegnati come pitture rupestri, ad essere scritti su pietra, papiri, pergamene e infine su carta, come nuovo luogo dove l’immaginazione e il fantastico potevano trovare una casa accogliente. Si incontrarono così il fantastico e la letteratura, fondendosi in un legame indissolubile, vivo ancora oggi. Con il passare del tempo, le rappresentazioni del fantastico in letteratura finirono per abbracciare una vasta gamma di generi, a loro volta divisi in una serie di sottogeneri.
Tra le tante rappresentazioni del fantastico in letteratura – all’ombra dei più famosi fantasy e fantascienza, e proprio per questo meno conosciuta – c’è l’ucronia. Il termine è stato coniato dal filosofo francese Charles Renouvier (1815-1903), deriva dal greco antico “nessun tempo”, ed indica una narrativa fantastica in cui la storia del mondo ha seguito un corso alternativo rispetto alla nostra realtà. È possibile ritrovare questo anche nella storia controfattuale, una corrente storiografica – avversa alla quasi totalità della comunità degli storici – che descrive gli sviluppi storici che si sarebbero potuti verificare in maniera alternativa rispetto a quelli che conosciamo noi oggi, e riassumibile nell’espressione inglese “What If”. Quindi l’immaginazione ha trovato terreno fertile anche nella storia che, come del resto tutte le altre scienze, si fonda proprio sulle fonti, sui documenti e sulle testimonianze, nel tentativo – quasi irraggiungibile – di ricostruire i fatti senza alcun tipo di filtro o di interpretazione soggettiva.
Possiamo trovare un primo esempio di ucronia nell’opera Ab Urbe Condita (27 a.C. – 14 d.C.) di Tito Livio. Mentre ripercorre la storia di Roma dalla sua mitica fondazione ad opera di Romolo, Tito Livio si domanda cosa sarebbe accaduto se il regno macedone di Alessandro Magno piuttosto che conquistare l’Oriente avesse conquistato l’Occidente e quindi l’Europa. Ma è solamente nel corso dell’Ottocento che opere letterarie dal carattere ucronico si affermano con più frequenza. L’epopea napoleonica, scaturita da un evento per molti versi epocale come la Rivoluzione francese, non poteva essere esente da quella tendenza. Così che lo scrittore francese Louis Geoffroy nel saggio Napoléon et la conquête du monde, 1812 à 1832 – historie de la monarchie universelle, immagina Napoleone prima vittorioso nella campagna di Russia e poi nella battaglia contro la Gran Bretagna, il cui risultato è la fondazione di un impero globale. Durante quel secolo ritroviamo altre opere letterarie che si richiamano direttamente o meno all’ucronia, basti pensare a Viaggio al centro della terra (1864) di Jules Verne, o al più tardo Il mondo perduto (1912) di Sir Arthur Conan Doyle, dove vengono immaginati luoghi in cui i precedenti dominatori del globo, i dinosauri, non si sono estinti.
Ma l’Ottocento viene ricordato anche la per Guerra civile americana, considerata da molti come la prima delle guerre moderne, antesignana delle due guerre mondiali del secolo successivo. Proprio la Guerra civile americana è oggetto di una saggio di ucronia, il cui autore è un insospettabile Winston Churchill (1874-1965), che di lì a un decennio sarebbe diventato una delle personalità politiche più importanti. If Lee had not won battle of Gettysburg viene pubblicato nel dicembre del 1930 sulle pagine dello Scribner’s Magazine. L’esercizio letterario escogitato da Churchill è complesso. Il titolo del saggio trae in inganno, perché dobbiamo intenderlo come se il generale confederato Robert Lee ha effettivamente vinto la battaglia di Gettysburg. Churchill immagina sé stesso in un mondo in cui Lee ha vinto a Gettysburg, di conseguenza si chiede cosa sarebbe potuto accadere che se Lee non avesse vinto. Il futuro primo ministro britannico inizia il suo saggio ripercorrendo gli avvenimenti successivi a quella battaglia decisiva. Dopo quella vittoria, Lee entra in una Washington abbandonata da Lincoln e dal governo dell’Unione e decide di dichiarare abolita la schiavitù nonché di ribadire la ferma volontà del Sud di staccarsi dall’Unione. Nonostante la perdita della capitale, il nord unionista non si era arreso, ma di fronte all’abolizione della schiavitù veniva a cadere il problema morale che aveva alimentato la guerra fino a quel momento, trasformandola in una mera guerra civile fra separatisti e unionisti. Quella decisione mina lo schieramento interno all’Unione, mentre il Sud si allea con la Gran Bretagna a causa del blocco imposto dall’Unione alle esportazioni di cotone. Il discorso di Lincoln al Madison Square Garden di New York e il successivo trattato di pace di Harper’s Ferry del 1863, pongono fine alla guerra civile, riconoscendo un Sud indipendente con gli schiavi liberi. Negli anni ’80 dell’800 mente il Nord medita vendetta, gli Stati Confederati conquistano il Messico. La tensione fra i due paesi continua a crescere fino al 1905, quando sull’orlo di una nuova guerra viene firmato il Patto dell’ Associazione di lingua inglese, tra Gran Bretagna, Unione e Stati Confederati. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, questa associazione minacciò che se non venivano cessate le ostilità sarebbe entrata in guerra contro tutti gli Stati belligeranti. Churchill conclude il suo saggio scrivendo che lo Zar russo e il Kaiser tedesco dovevano ringraziare Lee per la sua vittoria a Gettysburg, se erano ancora seduti sui loro vecchi troni.
Un altro esempio interessante di ucronia è La svastica sul sole (noto anche come L’uomo nell’alto castello), romanzo scritto da Philip K. Dick (1928-1982) e pubblicato nel 1962. Qui l’autore immagina un mondo in cui le potenze dell’Asse hanno sconfitto gli Alleati e vinto la Seconda Guerra Mondiale, spartendosi il globo. Gli stessi Stati Uniti sono divisi: la costa atlantica fa parte del Reich, mentre la costa pacifica dell’Impero giapponese, in mezzo – corrispondente alle Montagne Rocciose – una zona franca, terra di nessuno. Al centro del romanzo di Dick c’è un romanzo (metalibro), il best seller La cavalletta non si alzerà più, in cui viene immaginata una vittoria Alleata nel conflitto mondiale. L’autore di questo libro è cima alla lista dei ricercati dalle autorità naziste, e sia la riproduzione sia la vendita del libro sono vietate. Intorno a questo, si muovono una serie di personaggi e il romanzo di Dick inizia nella San Francisco giapponese degli anni’60. Ma c’è di più. C’è la tensione per la Guerra Fredda che Dick vive in prima persona in quegli anni e che riporta nel suo romanzo, dove sostituisce gli Stati Uniti e l’Urss con la Germania nazista e l’Impero giapponese. Viene riportato anche il dramma morale della dominazione, del vivere in una società in cui si è subordinati. Anche qui c’è molto della società contraddittoria in cui vive Dick, quella americana che discrimina ancora gli afroamericani. Descrive questa situazione non dall’esterno, bensì dall’interno, dalla parte di chi vive questo disagio: come l’ebreo Frank Frink, scappato dalle persecuzioni naziste a New York e che sopravvive a San Francisco solamente grazie alla tolleranza giapponese verso gli ebrei; o come il mercante di antichità storiche dell’America pre-guerra Robert Childan, che si trova di fronte all’ossessione dei giapponesi per i cimeli americani, visti come oggetti di collezionismo. Anche se l’ucronia non viene accettata dal mondo degli storici accademici, bollata come un esercizio di fantasia o immaginazione che trova una dimensione nella letteratura, io credo che abbia una propria legittimità. Una legittimità che si origina dalla consapevolezza che la storia – quindi i fatti del passato che si è deciso di ricordare e che proprio per quello divengono storia – è una serie interminabile di causa-effetto, di complesse dinamiche che a volte coinvolgono il singolo individuo e a volte un gruppo più ampio di individui, e che se soltanto uno di quegli ingranaggi sarebbe stato diverso, allora anche tutto quello che ne deriva sarebbe stato diverso.