di Nicolò Errico
Quando nel 2018 Abiy Ahmed è stato eletto Presidente dell’Etiopia, le buone aspettative non mancavano.
Per la prima volta, un membro dell’etnia Oromo saliva al potere, e questo alla fine di un periodo lungo tre anni di violenta contestazione al predecessore, il Presidente Desalegn.
Eletto dal Parlamento etiope Primo Ministro dell’Etiopia il 28 Marzo 2018, Abiy ha sorpreso il mondo con l’improvvisa accettazione dei termini per stabilire finalmente la pace con l’Eritrea.
La guerra d’indipendenza dell’Eritrea, cominciata nel 1961 e protrattasi fino al 1991, si è trasformata nella guerra tra Etiopia ed Eritrea nel 1998 per chiudersi – a detta dell’Etiopia – nel 2002. In realtà, il conflitto si è trascinato fino al luglio 2018, quando in seguito al Summit per la pace tra i due paesi Abiy ed il dittatore eritreo, al potere dal 1993, Isaias Afwerki hanno firmato la pace e ristabilito le relazioni diplomatiche, chiudendo definitivamente la guerra. Abiy ha così ottenuto il Nobel per la Pace 2019, scelta ora contestata in quanto prematura secondo gran parte dell’opinione pubblica.
I due popoli hanno festeggiato per le strade, famiglie divise si sono potute riunire. La fine del conflitto, lo sviluppo economico ed il prestigio del nuovo Presidente alimentavano l’idea di una nuova fase per il Corno d’Africa, dove un’Etiopia più avanzata avrebbe trainato la crescita di una delle regioni più povere del mondo.
Purtroppo queste speranze si sono infrante contro la realtà. Nonostante le promesse di maggiore democrazia e trasparenza, in un paese dominato dalla stessa coalizione da anni, che sceglie i Presidenti a porte chiuse, Abiy ha cominciato a mostrare tratti sempre più autoritari e le tensioni politiche di un paese etnicamente e storicamente frammentato hanno iniziato a dominare l’agenda, sostituendo ogni idea di riforma. A peggiorare la situazione, il Covid-19 ha rappresentato la scusa per sospendere le elezioni parlamentari locali e per restringere ulteriormente le libertà della popolazione.
Nel novembre 2019, Abiy propone di unificare i quattro partiti della coalizione al governo – l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) – del paese dal 1991 in un unico partito, il suo, il Partito della Prosperità. L’Etiopia è diventato dunque uno stato monopartitico dal dicembre 2019, con l’opposizione di uno solo dei quattro partiti dell’EPRDF, il Tigray People’s Liberation Front (TPLF). Il TPLF, partito e organizzazione paramilitare composta da membri dell’etnia tigrina, i quali abitano tradizionalmente nella regione del Tigré, un’area dell’Etiopia settentrionale che confina con l’Eritrea, rifiuta di unirsi al Partito di Abiy, accusato di accentrare sempre di più il potere.
A questo punto, i leader tigrini vengono estromessi dal potere con accuse di corruzione. Come precedentemente detto, Abiy ha rinviato le elezioni parlamentare a causa della pandemia, ma la regione del Tigré decide di tenerle nel settembre 2020. Le elezioni vengono dichiarate nulle dal governo centrale ed una fetta di fondi federali viene tagliata come rappresaglia. Il 3 novembre 2020, l’astio tra il Partito della Prosperità ed il TPLF, ha portato all’inizio di una vera e propria guerra civile, che tuttora sconvolge il paese, ed in particolare il Tigré. Le raccapriccianti notizie di pulizia etnica, stupri su vasta scala, civili uccisi arbitrariamente – talvolta bruciati vivi – e detenzioni di massa sembrano trovare conferma nelle informazioni delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, nonostante il tentativo del governo centrale di isolare l’area dal resto del mondo.
L’Alta Commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ha dichiarato recentemente che le violenze si stanno estendendo alle regioni vicine e che le violazioni dei diritti umani vengono sistematicamente compiute da entrambe le parti. Sempre secondo le Nazioni Unite, il 40% della popolazione tigrina rischia di soffrire di fame acuta. Si tratta di 400.000 persone, un numero destinato ad aumentare, dato che la guerra è ben lontana dalla sua fine. Il 90% della popolazione necessita, secondo l’ONU, di immediati aiuti alimentari ed, in generale, umanitari, per evitare il disastro.
Non sappiamo quanti siano i morti o i feriti, né ci sono notizie certe sul destino di milioni di persone costrette a lasciare le proprie case. Siamo all’oscuro di questa tragedia. Quello che sappiamo è che la tragedia umanitaria è vicina. Il Direttore per l’Africa Orientale del World Food Programme, Michael Dunford, ha accusato il governo etiope di star deliberatamente bloccando l’afflusso di cibo e medicine verso le aree del conflitto. Per il numero di persone coinvolte, si tratterebbe della peggiore crisi alimentare del XXI Secolo, insieme a quella della vicina Somalia nel 2011. Non si tratta di qualcosa di nuovo, per la popolazione tigrina. Tra il 1983 ed il 1985, nel pieno svolgimento della guerra civile etiope, morirono circa 1,2 milioni di persone per la fame, gran parte dei quali erano abitanti del Tigré.
La situazione in Etiopia non è facile. Si tratta di un paese abituato ad una costante guerra civile tra etnie e signori della guerra, che subisce ed allo stesso tempo alimenta la catastrofe umanitaria della Somalia. La Presidenza di Abiy ha dovuto affrontare alcuni tentativi di golpe – Abiy stesso ha subito un attentato durante un comizio il 23 giugno 2018 – e risponde con la forza alle tante divisioni all’interno dello stato. Ma tra i numerosi scontri, il più preoccupante è certamente quello nel Tigré. Senza entrare con questo articolo nei dettagli delle offensive e dei microcosmi delle coalizioni che si fronteggiano, quello che è estremamente necessario far sapere è che la violenza sta coinvolgendo migliaia di civili, e la scarsa trasparenza degli schieramenti e del governo etiope non permettono il reperimento di informazioni certe. La scarsa copertura mediatica, ora oscurata dall’ingiustificata invasione russa dell’Ucraina, rischia sia di non permettere la preparazione di aiuti adeguati, ma anche di far dimenticare la tragedia tigrina – e non solo – ad un mondo disattento. Gli stati sviluppati non possono permettere la morte di milioni di persone per la fame ed in primis non può certamente farlo un governo, deliberatamente come arma di guerra.
Il 15 marzo scorso, il Primo Ministro della Somalia, Mohamed Hussein Roble, ha chiesto un intervento immediato per aiutare il paese ad affrontare la straordinaria siccità di quest’anno. La situazione del Corno d’Africa, dove secondo l’ONU tredici milioni di persone rischiano di soffrire di fame acuta entro il prossimo anno, rischia di diventare non solo un’ecatombe, ma anche la fiammata per la prossima crisi migratoria.
L’Occidente democratico, se non vuole perdere il suo volto civile, dovrà affrontare presto le infinite questioni pratiche che la combinazione di crisi climatica, guerra, fame e autoritarismo pongono di fronte ai più popoli fortunati del pianeta, quelli che hanno le risorse per proporre soluzioni ed alternative. Oppure potrà sempre decidere di abbandonare ogni pretesa di civiltà, e con essa l’apparente esempio di sviluppo e progresso che vende al mondo intero. A quel punto l’Occidente potrà iniziare a lottare per la propria mera sopravvivenza, come un animale, senza il peso di dover sembrare migliore degli altri.
Per fare le scelte che determineranno la sopravvivenza e l’adattamento ad un nuovo ecosistema non potremo aspettare ancora molto, mentre per altri paesi questo momento è già arrivato.