di Ida Barbalinardo
Eh, ma i figli sono destinati a riproporre gli schemi dei genitori…
Ѐ una frase che nel corso degli anni è venuta spesso fuori nei discorsi fatti con mio padre e mia madre e che – detta con fare scherzoso o meno – mi ha sempre suscitato sensazioni contrastanti. Sì, perché per quanto ereditare determinate loro caratteristiche (che siano esse fisiche o comportamentali) possa inorgoglirmi, l’idea di questo destino ineluttabile che ridurrà la mia esistenza a una specie di copia delle vite dei miei genitori mi turba non poco.
Immaginate quindi quanto questo sentimento si sia acuito nelle varie fasi della mia crescita, specie in quel periodo cruciale durante il quale – attraverso l’esperienza del mondo esterno – si acquisiscono gli strumenti per svincolarsi progressivamente dall’idealizzazione delle figure genitoriali tipica dell’infanzia. Ѐ il momento in cui gli adulti perdono a poco a poco quell’aura da personaggi eroici che li aveva sempre contraddistinti e si rivelano per quello che sono: umani, fallibili, fragili, imperfetti, a volte perfino ipocriti, bugiardi e meschini. Ѐ il momento in cui scopri che chi ti ha cresciuto, oltre a un modello positivo a cui ispirarsi, può rappresentare anche lo specchio degli errori da non commettere.
Alla luce di queste premesse, quindi, l’eventualità di essere “condannati” a riprodurre gli atteggiamenti dei propri genitori diventa ancor più sgradevole e la reazione più comune non può che essere il tentativo spasmodico di distaccarsi da ciò che di loro non si apprezza, attraverso la scoperta e la costruzione della propria identità.
Un percorso simile lo affronta Giovanna, protagonista de La vita bugiarda degli adulti, ultimo romanzo di Elena Ferrante: un personaggio con cui molti possono identificarsi, ennesima dimostrazione della capacità della misteriosa scrittrice di rappresentare spaccati di realtà in maniera chiara ed efficace.
All’inizio della storia, “Giannina” (come spesso verrà chiamata nel corso del racconto) ha 12 anni e vive nella Napoli-bene, a San Giacomo dei Capri, nel quartiere Vomero. La sua è a tutti gli effetti una famiglia borghese: il padre (Andrea Trada) e la madre (Nella) trascorrono le loro giornate tra ore di studio intenso e l’educazione della loro unica figlia femmina. Ѐ un’educazione fondamentalmente laica quella che i due coniugi riservano a Giovanna, basata sull’importanza della cultura come mezzo per emanciparsi dalla volgarità e dall’ignoranza e sul controllo delle emozioni più intense. Stessa educazione che gli amici fraterni, Mariano e Costanza, trasmettono alle figlie, Angela e Ida.
La vita delle due famiglie pare dunque scorrere senza troppe complicazioni, fino a quando non accade qualcosa che, a poco a poco, stravolgerà tutto: una sera di febbraio – lasciando involontariamente la porta della sua camera aperta – Giannina ascolta i commenti dei suoi genitori riguardo il calo del suo rendimento scolastico. Nel fiume indistinto di parole, la ragazza viene colpita da una frase pronunciata dal padre: “L’adolescenza non c’entra. Sta facendo la faccia di Vittoria.” Una frase che non parrebbe così grave se la protagonista non sapesse cosa Vittoria rappresenta in casa sua.
Vittoria, sorella del sign. Trada e zia di Giovanna, è stata sempre descritta dai due coniugi come “una donna nella quale combaciavano alla perfezione la bruttezza e la malvagità” e ancora “un essere mostruoso che macchia e infetta chiunque sfiori”. Va da sè, quindi, che la reazione sgomenta e confusa di Giannina non stupisce affatto, soprattutto se si considera che fino a poco prima veniva trattata dai genitori come fosse il gioiello più prezioso.
Incapace di trovare risposte soddisfacenti agli interrogativi che le affollano la mente dopo quell’avvenimento, decide infatti di fare visita per la prima volta a sua zia, per verificare dal vivo se quanto detto dal padre corrisponde alla verità o se si tratta di una frase pronunciata con leggerezza.
L’incontro con Vittoria catapulta Giovanna in una dimensione a lei ignota, un mondo dal quale i genitori hanno sempre cercato di tenerla lontana, ma che la affascina forse proprio in virtù del suo essere opposto al contesto in cui ha sempre vissuto. La zia paterna vive infatti al Pascone, quartiere popolare sito nella zona industriale di Napoli, e fin da subito appare ai suoi occhi “di una bellezza così insopportabile che considerarla brutta diventava una necessità”. Le persone vicine a Vittoria accolgono la ragazza con un calore che a quest’ultima non era stato mai rivolto e – quelle che venivano definite dal padre come “sagome ululanti di disgustosa scompostezza” – le sembrano invece creature gioiose e piene di vita, proprio perché libere dai filtri del buon costume.
Così, in un costante alternarsi e scontrarsi di cultura e natura, realtà borghese e popolare, Giovanna entra in contatto con un mondo nuovo che le darà la possibilità di scovare le ipocrisie sottostanti al decoro tanto ostentato dai suoi genitori.
La visita alla zia mai conosciuta costituirà il momento di non ritorno che segnerà la fine dell’infanzia felice e spensierata della protagonista e l’entrata di quest’ultima nel mondo degli adulti. Un mondo che, come anticipa il titolo del romanzo, la inizierà progressivamente alla bugia.
Intanto imparai sempre più a nascondere ai miei genitori ciò che mi accadeva. O meglio, perfezionai il mio modo di mentire dicendo la verità. Naturalmente non lo facevo a cuor leggero, ne soffrivo. Quando ero a casa e li sentivo muoversi per le stanze col passo consueto che amavo, […] il mio amore per loro prevaleva, ero sempre sul punto di gridare: papà, mamma, avete ragione, Vittoria vi detesta, è vendicativa, vuole togliermi a voi per farvi del male, trattenetemi, vietatemi di incontrarla. Ma appena cominciavano con le loro frasi ipercorrette, con quei loro toni contenuti, come se davvero ogni parola ne celasse altre più vere da cui mi escludevano, telefonavo in segreto a Vittoria, fissavo appuntamenti.
Influenzata dal martellante monito di sua zia (“Guardali bene, i tuoi genitori, se no non ti salvi.”) e allo stesso tempo da ciò che di questa le avevano sempre raccontato il padre e la madre, Giannina coinvolge il lettore in un lungo viaggio nell’esperienza di crescita di un’adolescente alla ricerca di un’identità che le assomigli quanto più possibile e di qualcuno a cui credere. Un viaggio che la protagonista compie affrontando parallelamente il cambiamento del suo corpo, la scoperta del sesso e la distruzione della sua famiglia e di quella di Mariano e Costanza, causata dall’emergere delle menzogne che per anni avevano sapientemente nascosto.
In una continua lotta con se stessa e con il mondo che la circonda, alternando momenti di rabbia e dolore a momenti di euforia e rinnovata speranza, Giovanna ci accompagnerà verso un finale che altro non ci dice se non che il suo viaggio interiore continuerà anche dopo che le pagine saranno finite. Un finale aperto – per così dire – che non convince particolarmente, soprattutto perché non dà al lettore l’idea di una continuità della storia ma di una sua brusca interruzione, che evidenzia quanto fosse in realtà necessario approfondire ancora alcuni aspetti del racconto.
Ciò che emerge, a mio modesto parere, è che la capacità della Ferrante di costruire storie e caratterizzare personaggi si esprima al meglio in narrazioni più corpose, quale è – ad esempio – la tetralogia de L’Amica geniale. Questo non mette in dubbio il valore del suo ultimo lavoro, in cui l’autrice –attraverso la sua scrittura sempre fluida ma non per questo poco curata – sembra suggerirci che tra il guardare e il vedere c’è realmente un vuoto che spesso gli adulti credono di colmare a dovere con le parole, le quali tuttavia sono sempre più distanti dalla concretezza della vita vera che è superiore a qualunque menzogna.