Il doge assiste alla festa del giovedì grasso in Piazzetta di Francesco Guardi
di Enrico Molle
La secolare storia di Venezia è di sicuro tra le più peculiari dell’intero panorama italiano ed europeo. Nata nel VI secolo, la Serenissima per oltre mille anni ha partecipato attivamente ai grandi processi storici della nostra penisola e dell’intero bacino del Mediterraneo.
Tuttavia, quando nel 1797 per la prima volta delle truppe straniere la invasero, la città lagunare era ormai avviata verso un inesorabile declino politico e sociale e quindi ben lontana dalla gloria che l’aveva contraddistinta per molti secoli.
Alla vigilia del XIX secolo, la vita pubblica veneziana era agitata da travagli politici interni, provocati dalle nuove idee introdotte dalla Rivoluzione francese, cui il governo, pur arroccandosi su posizioni rigidamente conservatrici, non seppe fornire un’efficace reazione. Durante la campagna d’Italia condotta dalla Francia rivoluzionaria, la Repubblica venne invasa dalle truppe francesi di Napoleone Bonaparte che occuparono la terraferma, giungendo ai margini della laguna. A seguito delle minacce dei francesi, ormai entrati in città, nella seduta del 12 maggio 1797, il Doge e i magistrati deposero le insegne del comando, mentre il Maggior Consiglio abdicò e dichiarò decaduta la Repubblica. La caduta della Repubblica di Venezia fu un evento epocale che destò scalpore nei cuori dei contemporanei e tutt’oggi rimane un avvenimento di cruciale interesse, ma per comprendere appieno tale avvenimento, bisogna analizzare i mutamenti che avevano caratterizzato la Serenissima nel periodo antecedente all’invasione francese.
Nel XVIII secolo Venezia non era più la signora dei mari del Trecento e del Quattrocento, anche se restava la città italiana più brillante, più cosmopolita e meno condizionata dalla Spagna e dal Papato. Il Rinascimento aveva lasciato la sua indelebile impronta e con l’avvento del Barocco era iniziata una nuova era. I palazzi acquisirono nuova maestà e magnificenza con facciate e interni fastosi: ori, cristalli, mosaici, arazzi li rendevano simili a regge; i soffitti erano un tripudio di affreschi ispirati a temi pagani e cristiani; i mobili, con il nuovo stile, erano svolazzanti e artificiosi, tempestati di pietre e popolati di tralci, chimere, sfingi e uccelli intagliati. Un pizzico di esotismo non mancava, con lacche o porcellane provenienti da Cina e Giappone.
Lusso e ricchezza si riflettevano anche nell’abbigliamento, in quanto all’epoca Venezia rappresentava un punto di riferimento per l’eleganza, con i migliori sarti, le lane più pregiate e le sete più fini e il guardaroba era la principale occupazione delle gentildonne veneziane. L’abito più comune consisteva in un corpetto con gorgiera increspata, maniche a sbuffi, strette ai polsi e larghe alle spalle, rinforzato alla vita da stecche di balena, e in una gonna pieghettata tenuta larga da un guardinfante che metteva in risalto i fianchi e dava maestà alla figura femminile. Le calzature erano altrettanto elaborate e quelle più di moda avevano la forma di zoccoli, alti e scoscesi come trampoli che richiedevano esercizi di equilibrismo.
Le donne veneziane facevano uso di unguenti, cosmetici e profumi. La toilette di una signora durava un’intera mattinata impegnando stuoli di cameriere e aveva il suo culmine nella confezione del neo, che costituiva il momento supremo del trucco. Ogni neo aveva il suo significato e il suo nome: sul naso si chiamava «sfrontato», all’angolo dell’occhio «appassionato», sulle labbra «galante», in mezzo alla fronte «maestoso», all’angolo della bocca «assassino». Le unghie si portavano lunghissime e le chiome imponenti. I parrucchieri utilizzavano posticci, trecce, riccioli, chignon, e si sbizzarrivano in acconciature barocche e stravaganti trasformando i capi delle signore in nidi di uccelli imbalsamati, grappoli di uva, cesti di frutta e mazzi di fiori, il tutto guarnito con pettini, spille e fermagli. Accessorio indispensabile era il ventaglio: di seta, di pergamena, di carta, dipinto a mano e fregiato di perle e gemme, complice della galanteria di ogni dama. Il guardaroba delle popolane era ovviamente ben diverso, costituito da pochi capi semplici e senza pretese, tuttavia decorosi.
Gli uomini non erano meno vanitosi delle donne. Sotto la toga nera, la veste ufficiale di ogni patrizio, indossavano abiti eccentrici e variopinti di velluto e damasco, ispirandosi a modelli spagnoli e francesi. Le camicie di un gentiluomo erano di lino o di seta, le calze provenienti dall’Inghilterra e le scarpe strette, appuntite e infiocchettate. I borghesi indossavano il tabarro fatto di seta o di panno, i popolani invece un paio di brache e una giubba. Vi erano poi gli zerbini, una sorta di dandies, che passavano davanti allo specchio sedute non meno estenuanti di quelle di una dama. Si incipriavano la chioma, si profumavano e si riempivano di gioielli assumendo pose ridicole, leziose e sdolcinate.
Per frenare il lusso eccessivo e dilagante, la Repubblica aveva persino deciso di emanare pene severe e multe contro chi vendeva stoffe e guarnizione troppo costose, ma tali misure non bastarono ad arginare lo sperpero di denaro che si verificava in occasione delle cerimonie, quando intere fortune venivano dilapidate. Lo sfarzo che si foggiava durante la celebrazione di un matrimonio era principesco e il cerimoniale che precedeva uno sposalizio era costosissimo e complicato. Come prima cosa il fidanzato doveva, per un certo numero di giorni e a una determinata ora, passare sotto la finestra della fidanzata e salutarla con un ampio gesto della mano, in seguito veniva ricevuto dai futuri suoceri e donava alla promessa sposa un anello, detto «ricordino». Il giorno delle nozze la sposa andava a far visita ai genitori dello sposo e riceveva da loro la benedizioni, poi il corteo nuziale, tra ali di folla festante, s’avviava verso la chiesa. Al termine della cerimonia, veniva celebrato nella casa dello sposo un enorme banchetto cui seguiva un gran ballo: si mangiava e si beveva tra canti, danze e divertimenti per due giorni.
Un’altra grande passione dei veneziani era il teatro. La stagione toccava il culmine nei mesi invernali, ma da luglio a ottobre il teatro prendeva una pausa perché i nobili e i ricchi quel periodo solevano trascorrerlo nelle loro suntuose ville sparse sulle rive del Brenta, in uno scenario di incomparabile bellezza. Queste famose ville venivano progettate e decorate da famosi architetti, scultori e pittori ed erano dei veri e propri paradisi terrestri con giardini all’italiana ricchi di statue, cascate e fontane. La vita dei loro proprietari non era meno sfarzosa delle ville. Le feste si susseguivano e ai balli e ai banchetti si alternavano gite in campagna, battute di caccia, partite a carte e giochi di società. Il momento più solenne era quello del caffè, servito alle cinque del pomeriggio. Di questa bevanda si faceva un uso così imponente a Venezia che il suo acquisto assorbiva una buona parte del budget domestico.
Il calendario delle feste veneziano era pieno di ricorrenze. Si iniziava a Capodanno, quando il Doge si recava a San Marco ad adorare il Santissimo. Il 3 gennaio c’era una gran parata nella piazza, con il Doge che incedeva in paramenti di seta e di velluto protetto da un parasole, preceduto dai trombettieri e seguito dal clero e dalla nobiltà in alta uniforme. Le apparizioni del Doge si ripetevano per l’Epifania, per San Pietro Orsoleo, per la traslazione di San Marco, per l’Annunciazione, ma lo spettacolo più atteso era quello per lo Sposalizio del mare, che si celebrava il giorno della Sensa: stivata sulle gondole, tutta la città seguiva il leggendario Bucintoro con cui il Doge attraversava la laguna. Giunto all’imboccatura del porto di San Niccolò di Lido, il Doge versava in mare un secchio d’acqua benedetta dal Patriarca e pronunciava la frase di rito: «Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio».
Tappa fondamentale era il Carnevale che durava per quasi sei mesi, iniziando la prima domenica di ottobre, facendo una pausa per cedere il passo alle festività natalizie, per poi riprendere fino alla Quaresima. Dopo questa pausa i veneziani tornavano a divertirsi con la Fiera.
Tutti questi eventi e spettacoli erano necessari soprattutto per i nobili, in quanto il patriziato non poteva frequentare locali pubblici o mostrarsi con donne. Le dame non potevano infatti andare in giro senza essere accompagnate da un valletto o dal cicisbeo di turno. Il Carnevale liberava tutti da questi obblighi. Con il tabarro, una cappa nera lunga fino ai piedi, e con la bautta, un fitto velo applicato sotto il tricorno che ricadeva sul viso coprendolo, ceti e sessi erano alla pari ed era regola che nessuno riconoscesse nessuno. L’anonimato si prestava chiaramente a ogni tipo di tresca e di licenza e, considerato che nei palazzi patrizi non poteva essere impedito l’accesso a chi si presentava mascherato, i plebei ne approfittavano ampiamente.
In un tale clima di festa, un problema era rappresentato dal gioco. Ovunque era pieno di bische e di casinò, ma il più famoso era il Ridotto che nel 1774 venne sospeso dal governo, perché, pur rappresentando la più ricca fonte di introiti, tendeva a inghiottire i patrimoni della nobiltà indebolendola. Tuttavia la soppressione del Ridotto non sortì nessun effetto nel contrastare il fenomeno, al contrario tutti gli altri locali come i salotti, i caffè, le case delle cortigiane si trasformarono clandestinamente in posti dove il gioco d’azzardo la faceva da padrona. Ovviamente in una società così libertina anche l’amore, o meglio il sesso, tendeva a diventare un gioco. Ne erano contaminati persino i conventi e secondo alcuni libelli risulta che le suore del tempo ricevevano in parlatorio i propri spasimanti e a Carnevale uscivano mascherate e scollate intrecciando numerose relazioni amorose.
Considerata la decadenza morale ed economica della città, il governo oligarchico di Venezia era costretto a servirsi di un corpo di polizia molto efficiente capitanato dai tre Inquisitori di Stato, un organo di magistratura affiancato al Consiglio dei Dieci. Un quadro sociale quale era quello della Serenissima, costellato di lusso, vizi, piaceri e trasgressioni, poneva chiaramente in allerta gli Inquisitori di Stato, che servendosi di un sistema ben consolidato di informatori, operavano uno spionaggio invadente, capillare e onnipresente. Di fatto la società veneziana veniva sorvegliata in ogni persona e in ogni momento del giorno e della notte e i tre Inquisitori venivano infornati di tutto, dalle piccole beghe e dagli scandali quotidiani ai grandi segreti di Stato, dai disordini della vita privata a quelli della vita pubblica, dai reati di pensiero a quelli contro il patrimonio.
Le spie battevano in lungo e in largo la città, frugandone ogni angolo più recondito, penetrando in qualsiasi ambiente sociale, dalle locande equivoche agli alberghi di lusso, meta dei grandi nobili e dei viaggiatori stranieri. Frequentavano quasi quotidianamente le botteghe di caffè, captavano conversazioni, commenti, discussioni intorno ai fatti riportati dalle gazzette e ai grandi e piccoli eventi della vita della Repubblica, scrutando con minuta e quasi compiaciuta precisione ogni disordine, irrequietezza, violazione di norme di polizia o semplicemente della morale corrente e della buona educazione, dalla presenza di donne ambigue nei camerini, alle risse e agli eccessi delle maschere in tempo di carnevale.
Tuttavia la mole immensa di informazioni affluita sui tavoli dei tre Inquisitori, non si tradusse mai in azioni repressive massicce ed esemplari, al contrario si manifestarono sporadiche ammonizioni, più o meno burbere, ai cittadini e nobili dalla vita morale e civile troppo disordinata, qualche espulsione di stranieri indesiderati e alcune relegazioni in Dalmazia di nobili dissoluti o politicamente inquieti. Nonostante la scarsa severità dei provvedimenti, uno spionaggio così spregiudicato che violava il domicilio, corrompeva i servitori, apriva la corrispondenza e seguiva persino gli amanti, non poteva essere tollerato a lungo. Nel 1780 due nobili, Pisani e Contarini, denunciarono il regime poliziesco pubblicamente. Probabilmente all’origine della loro denuncia vi erano motivi personali, essendo entrambi dei «Barnabotti» (nobili decaduti cui lo Stato concedeva gratuitamente un alloggio nella zona campo di San Barnaba). I due proposero radicali e democratiche riforme e misure fiscali che riducessero il potere del Consiglio dei Dieci il quale, prima di reagire, esitò poiché l’opinione pubblica aveva accolto con entusiasmo le proposte dei due nobili ribelli e nei quartieri popolari c’era aria di sommossa. Ma quando la polizia arrestò i due agitatori facendoli sparire nelle carceri, nessuno continuò la contestazione. D’altronde non poteva essere altrimenti mancando a Venezia una classe media in grado di fornire un movimento riformista, in quanto la Repubblica non aveva fatto altro, finito il suo periodo d’oro, che difendere i privilegi di casta e si era divisa in dominanti e dominati, padroni e servi, senza un ceto intermedio.
La fine della millenaria storia della Serenissima si inquadra però anche nell’ambito degli sconvolgimenti politici prodotti dalla Rivoluzione Francese e dalle guerre rivoluzionarie scoppiate in seguito ai provvedimenti presi dall’Austria, che spinse numerosi Stati europei a riunirsi nella Prima Coalizione, con l’intento di reprimere proprio il fenomeno rivoluzionario. Il conflitto si intensificò negli anni e la Francia, nel periodo del Direttorio (1795), pianificò un grande offensiva a tenaglia contro le forze della coalizione: un attacco principale avrebbe investito da ovest gli Stati del Sacro Romano Impero, attraverso il Reno, mentre una spedizione di disturbo avrebbe colpito gli austriaci e i loro alleati da sud, attraverso l’Italia settentrionale.
La conduzione della campagna d’Italia venne affidata al giovane generale Napoleone Bonaparte (all’epoca ventisettenne), che nell’aprile del 1796 attraversò le Alpi con quarantacinquemila uomini per scontrarsi con le forze austro-piemontesi, travolgendo vittoriosamente il Regno di Sardegna e il Ducato di Milano. Nel corso del conflitto la Repubblica di Venezia aveva mantenuto l’ormai tradizionale posizione di neutralità, tuttavia i suoi territori si trovavano al centro dell’avanzata dell’esercito francese in direzione di Vienna e ciò rendeva precaria la situazione della Repubblica. Di fatto, gli eventi degenerarono rapidamente, soprattutto perché Napoleone mostrò di non tenere in alcun conto la libertà dei popoli, dando prova di un fermo cinismo opportunista. Gli accordi preliminari di pace con l’Austria (Leoben, aprile 1797), pur nella loro genericità, lasciavano intendere che la Repubblica di San Marco avrebbe continuato a esistere come Stato sovrano, ma segretamente sia Venezia che il Veneto servivano al generale francese come merce di scambio per la pace con l’Austria. La situazione precipitò definitivamente il 17 aprile 1797 (stesso giorno del Preliminare di Leoben), secondo giorno di Pasqua, quando a Verona scoppiò una rivolta antifrancese, le cosiddette «Pasque Veronesi», che in una settimana cacciò dalla città gli invasori. Durante la rivolta si verificò anche un episodio che vide distrutta la fregata francese Le libérateur d’Italie, che nel tentativo di forzare il porto del Lido, venne sbaragliata dalla potente artiglieria del forte di Sant’Andrea. Di fronte a tali episodi, i soldati francesi rioccuparono ben presto la città e imposero una contribuzione di 170.000 zecchini con la consegna delle opere d’arte e delle argenterie di tutte le chiese. Napoleone, infuriato, dichiarò agli emissari veneti che lo avevano raggiunto a Ganz: «Non voglio più Inquisizione, non voglio più Senati, sarò un Attila per lo Stato Veneto».
Il 1° maggio del 1797 Napoleone dichiarò guerra alla Serenissima che cedette di colpo senza nemmeno un sussulto d’orgoglio. Nonostante ingenti forze al suo interno, decise di non difendersi perché probabilmente, con questo atteggiamento di totale remissività, il patriziato pensava di salvare le sue vastissime proprietà terriere. Alle tre pomeridiane del 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio, in una convocazione formalmente illegale poiché per la validità della riunione sarebbero state necessarie 600 presenze, mentre i patrizi presenti erano solo 537, deliberava di trasferire i poteri a un «Provvisorio Rappresentativo Governo» sperando che ciò non si scontrasse con i desideri del generale Bonaparte. La Municipalità Provvisoria si insediò nel Palazzo Ducale, nella sala che era stata del Maggior Consiglio e nel periodo della sua attività venne emanata una pace umiliante che permise ai francesi di entrare in città: erano le prime truppe straniere a mettervi mai piede dalla nascita di Venezia. Nulla poté opporre la Municipalità al dilapidarsi dei suoi territori marittimi, il cosiddetto Stato da Màr, che in breve tempo portò l’intera costa istriano-dalmata a passare sotto il dominio dell’Arciducato d’Austria.
La disfatta definitiva arrivò con il trattato di Campoformio, stipulato il 17 ottobre 1797 tra francesi e austriaci: in conformità alle clausole segrete di Leoben, i territori della Repubblica di Venezia, ancora formalmente esistenti sotto il governo della Municipalità Provvisoria, furono consegnati all’Arciducato d’Austria.