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Ipazia, emblema della libertà di parola

Roberta Giannì

Nel 2009 nelle sale cinematografiche usciva Agora, film diretto da Alejandro Amenábar che raccontava la vita romanzata di Ipazia, interpretata da Rachel Weisz, in un’Alessandria d’Egitto tormentata dalle tensioni tra cristiani e pagani. Nel V sec. d.C. la città era governata da un prefetto incaricato dall’imperatore di Costantinopoli, in quanto città dell’Impero Romano d’Oriente, e obbediva al suo vescovo, custode della fede della comunità cristiana.

Rachel Weisz interpreta Ipazia in “Agora” (2009)

Ipazia era nata e cresciuta in un ambiente intellettuale. Suo padre, tale Teone, filosofo della scuola di Alessandria, l’aveva allevata tra studi matematici e filosofici, accrescendo la sua curiosità per numerose altre discipline a tal punto da essere superato, nella conoscenza del mondo, dalla sua stessa figlia. Gli anni di studio l’avevano infatti portata ad un certo apprezzamento e a una certa notorietà all’interno degli ambienti intellettuali non solo della sua città, ma anche tra le comunità esterne di dotti della tarda antichità. Era solita indossare un tribon, mantello grossolano indossato esclusivamente dagli uomini, e sedersi al centro della città, per raccontare a chiunque si fermasse ad ascoltare, di Aristotele, Platone e altre importanti personalità filosofiche. “Non era tanto il popolo a meravigliarsi” racconta l’enciclopedista del XVIII secolo Diderot, “quanto i filosofi, che sono difficili da stupire”. Intrapreso l’insegnamento, Ipazia non si dedicò esclusivamente alla trasmissione del sapere matematico, astronomico e filosofico, ma anche a quello legato alla sfera emozionale umana. Donna di grande bellezza ma per nulla attratta dalle frivolezze, aveva dovuto in diverse occasioni respingere i suoi numerosi corteggiatori, spesso celati tra i suoi studenti. Sembra infatti che essi tendessero a confondere l’amore platonico tipico dell’allievo nei confronti del maestro con il desiderio amoroso, che Ipazia respingeva spiegando come l’eros intellettuale e la passione fisica fossero due cose in realtà separate. In merito a ciò, le fonti antiche parlano di un particolare episodio – non ancora chiaro se reale o frutto di fantasia – di uno dei suoi studenti, il quale, incapace di resistere al desiderio amoroso nei confronti della sua insegnante, venne da lei indirizzato verso la musica. Quando però il giovane si rese conto che la terapia non aveva funzionato, Ipazia con fare teatrale spiegò come il desiderio fisico sia dovuto all’istinto umano alla riproduzione della specie, e che perciò il vero eros deve trascenderlo e divenire amore del sapere.
Ipazia non sentiva il peso di essere l’unica donna in assemblee composte da soli uomini, la loro compagnia non la faceva sentire in imbarazzo e non le faceva perdere la lucidità e la prontezza nella dialettica. La sua franchezza le permetteva di reggere qualsiasi tipo di conversazione con qualsiasi tipo di uditorio, anche con il più potente, che allo stesso modo affrontava faccia a faccia.

Eppure tutte queste sue caratteristiche e abilità non riuscirono ad evitarne la morte, una delle più atroci e contestate della storia, che l’hanno elevata a martire della conoscenza. Ipazia morì infatti assassinata e data alle fiamme per mano di fanatici cristiani, autori di un delitto che non si è spento nei secoli.

Nel 313 d.C. l’imperatore Costantino aveva concesso ai cristiani la libertà di culto; tuttavia, col tempo questa libertà divenne obbligo per tutti coloro che non erano cristiani. Nel 391 d.C. l’imperatore Teodosio I istituì la religione cristiana come religione unica dell’impero, vietando pratiche divinatorie e culti alle divinità pagane anche in forma privata: da quel momento le autorità ecclesiastiche si radicarono in città, dando il via a una violenta repressione del paganesimo. A subire tale ferocia non furono solo i fedeli ma anche i luoghi di culto: emblema di ciò fu la distruzione del Serapeo, tempio pagano, in cui i cristiani decapitarono e fecero a pezzi la statua del dio-demone in trono Serapide, che incarnava il potere dei monarchi ellenistici e custodiva la conoscenza dei segreti dell’Ade, il mondo degli inferi. La violenza cristiana mirava alla distruzione completa del paganesimo. “In quell’epoca”, scrive il vescovo di Nikiu, uno dei tanti che raccontarono la storia di Ipazia, “apparve una donna filosofa pagana, che dedicava tutto il suo tempo alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici”. Scrive Diderot: “Fu proprio il prestigio di cui giustamente godeva tra i suoi concittadini a perdere Ipazia”. E fu così che un giorno, “il vescovo della setta opposta”, come Suida definì Cirillo vescovo d’Alessandria, si ingelosì. Non è ancora chiaro cosa avesse scatenato l’invidia del vescovo nei confronti di Ipazia, non essendo ella ostile al cristianesimo, invidia che lo portò ad architettare il sinistro assassinio di cui la donna cadde vittima. Raccontano le fonti che in giorno come tanti, Ipazia venne tirata giù dal carro su cui tornava a casa, venne massacrata e il suo corpo fatto a pezzi, che vennero poi dati alle fiamme.

Probabilmente, il forte sentimento del vescovo contro Ipazia era stato animato da eventi precedenti che avevano coinvolto una terza persona, ovvero Oreste, il prefetto di Alessandria. Le fonti parlano di un rapporto di amicizia tra lui e la donna, rapporto che aveva fatto sorgere il dubbio che ella se ne servisse per influenzare le idee e le opinioni del prefetto. Il vescovo Cirillo, preoccupato che Ipazia lo stesse conducendo a prendere una posizione che andava contro il cristianesimo, mise in atto un’intimidazione diretta nei confronti di Oreste il quale, durante un corteo nel 415 d.C., venne aggredito prima verbalmente dai monaci seguaci di Cirillo, e poi fisicamente da un tale noto come Ammonio, che lo colpì con un sasso, gesto che pagò poi con la morte. Cirillo tributò la sua morte con solenni esequie ed un elogio funebre in pubblico in cui lo riconobbe come martire e gli cambiò il nome in Taumasio, ovvero “il mirabile”, per l’ammirevole gesto compiuto e per offendere apertamente il prefetto Oreste. Secondo le fonti, poco tempo dopo venne assassinata Ipazia, assassinio che rimase impunito, dato che il magistrato che si sarebbe dovuto occupare della relazione insabbiò l’inchiesta.

L’uccisione di Ipazia ha assunto nel corso dei secoli molteplici significati che non rimandano al semplice omicidio di una donna, ma assumono anche i connotati dell’assassinio della conoscenza scientifica e filosofica. “Emblematicamente è dalla cattedra, non dalla carrozza, che Ipazia viene trascinata giù” scrive Silvia Ronchey nel suo libro Ipazia – la vera storia. Quello tra lei e il vescovo Cirillo è stato definito dagli storici come “dramma”, un conflitto tra la religione e le “opposte filosofie”, causa di un delitto che priva per sempre Ipazia della sua libertà di parola. E a fare da sfondo è il contesto in cui tale evento accade, un contesto politico-religioso in cui le lotte principali riguardano in realtà le diverse personalità sociali, in un clima di instabilità che si crea nel momento in cui l’Impero vede l’introduzione di un nuovo credo e le antiche aristocrazie devono fare i conti con le potenti personalità ecclesiastiche. Ipazia e Oreste sono entrambi vittime di un sistema politico-religioso molto più grande di loro, che non ha bisogno di un effettivo nemico della fede per scatenare la propria aggressività.

In tutto ciò, per fortuna, a non pagare è stata propria la cultura antica: lo studio dei testi antichi e la trasmissione del sapere non si sono fermati di fronte a tali eventi, hanno continuato ad esistere attraverso le menti e le parole di altri che come Ipazia si sono dedicati alla loro diffusione nel corso dei secoli, dall’Umanesimo al Rinascimento e nell’Illuminismo, secoli in cui la vicenda di Ipazia è stata riportata alla luce e la donna è divenuta martire del sapere e simbolo della libertà di pensiero.