Enrico Molle
Qualche anno fa, dovrà essere stato il 2013, una sera d’inizio estate, un mio amico mi raccontò una storia che mi rimase molto impressa e che ancora oggi mi ritorna alla memoria periodicamente.
Questo mio amico mi parlò di un suo conoscente che aveva scritto la prefazione per una raccolta di poesie pubblicata dal padre, firmandosi però con un altro nome. Il libro si intitolava Memorie dell’Acqua di un certo Rocco Savarese e presentava due prefazioni, una delle quali scritte dal figlio, Giovanni Saverese, che aveva assunto uno pseudonimo.
Inizialmente non riuscivo a trovare un motivo a tutto ciò. Sì, è vero, moltissimi autori di fama mondiale hanno iniziato scrivendo con uno pseudonimo, basti pensare a Italo Svevo o al caso più eclatante delle sorelle Brontë, tuttavia non mi capacitavo del perché un autore semi sconosciuto avesse dovuto ricorrere a un tale stratagemma, per di più nascondendo non il suo vero nome, ma quello di colui aveva curato la prefazione del suo libro.
Passò un po’ di tempo e quando rividi il mio amico gli chiesi se avesse potuto procurarmi una copia di Memorie dell’Acqua, così decise di prestarmi la sua in attesa di un’occasione per incontrare uno dei due Savarese e chiederne una per me. Una settimana dopo avevo tra le mani questa raccolta di poesie che si presentava con una copertina molto semplice: su uno sfondo blu si stagliavano titolo e nome del poeta e, poco sotto questi, al centro, risaltava un dipinto realizzato con colori ad acqua che raffigurava una fanciulla in veste chiara abbandonata nell’acqua. Le poesie all’interno erano pressappoco una trentina e ricordo che riuscii a leggerle approfonditamente in un pomeriggio. Era luglio, faceva caldissimo e in quei giorni stavo studiando per qualche esame universitario di cui ora non ho memoria, ma ricordo perfettamente che quel giorno, steso sul letto della mia piccola stanza nella casa in cui alloggiavo, leggendo i versi di quel libro ne rimasi estasiato. Mi sembrava come se mai nella mia vita, prima di quel momento, avessi letto qualcosa di così completo e definitivo. Fu una sensazione bellissima.
Solo dopo aver letto le poesie decisi di leggere la prefazione di Giovanni Saverese: non volevo farmi condizionare da quello che in realtà mi aveva portato ad incuriosirmi a quel libro.
La prefazione mi colpì molto perché puntava l’attenzione su un fattore fondamentale nel processo di nascita di una poesia, ovvero l’alterità, esistenzialmente parlando, che consiste nell’estraneazione dell’individuo da sé stesso per diventare altro. Di fatto, il poeta, quando scrive una poesia, lascia che la sua anima esca e parli, dicendo tutto ciò che l’individuo non dice durante la sua quotidianità.
Mi rimase particolarmente impresso un passo che, ragionando sulla varietà dei posti e dei personaggi citati nelle poesie, recitava: «Dove Siamo Stati? Nel Salento, a Canterbury, in Irlanda? In Albania, in Bosnia o in Romania? In questi posti e in molti altri. Qui tra questi fogli, qui nella poesia, Rocco è quello che sente di essere mentre scrive, e noi possiamo essere quello che sentiamo mentre leggiamo, spettatori partecipi di scenari surreali.» Queste parole, che per fortuna posso rileggere di tanto in tanto perché dopo una lunga attesa sono riuscito ad entrare in possesso di una copia di Memorie dell’Acqua, sono diventate per me una sorta di monito, poiché mi ricordano che, ogni qual volta dovessi sentirmi estraneo a questo mondo, posso sempre liberare l’altra parte di me, quella che non si vede, e rifugiarmi nella poesia, che sia quella degli altri o la mia. Queste parole mi ricordano che fuori dal mio corpo, nel vasto universo della letteratura, posso giocare ad essere chi e cosa voglio, e questo mi dona la forza per continuare a scrivere sempre una riga in più, alla fine dell’ultima pagina che ben presto, parola dopo parola, diventerà la penultima.
Chi scrive può giocare, anche solo per un’istante, a essere Dio, a creare il suo universo, con le sue leggi e le sue controversie e io trovo che in un’esistenza priva di risposte alle grandi domande sul senso della vita, questo ci avvicini per un solo istante all’immortalità. Sarò sempre grato a Memorie dell’acqua per avermi dato la certezza che, come affermò Rimbaud[1], “Io è un altro”, quell’altro che può stravolgere ogni certezza, piegare il tempo e la realtà a suo piacimento, semplicemente poggiando una penna su un foglio bianco, rompendo il suo immacolato silenzio.
Ah, quasi dimenticavo, alla fine della prefazione di Giovanni Saverese, c’era la firma di Enrico Molle.
P.S.
La storia raccontata sopra è a metà tra la realtà e la finzione. Il libro Memorie dell’acqua, una raccolta di
ventinove poesie, esiste davvero ed è stato scritto non da Rocco Savarese, ma
da Roberto Molle. L’autore ha chiesto realmente al figlio, nonché io, Enrico
Molle, di scrivere una prefazione per la raccolta e di utilizzare uno
pseudonimo che in accordo è stato quello di Giovanni Savarese. Le sensazioni
che ho provato leggendo la raccolta di poesie di mio padre sono quelle
riportate nel testo. Il senso di alterità in Memorie dell’acqua è dilagante e pervade ogni cosa, dai luoghi, ai
personaggi, agli eventi storici che vengono menzionati. Il tutto si concilia
perfettamente con la scelta di farmi usare uno pseudonimo: non a caso, nel
momento in cui io mi sono dovuto accostare alle poesie di mio padre per
scriverne una recensione, ho sentito la necessità di dover essere altro
rispetto al figlio, sono dovuto diventare un estraneo che prende in mano un
libro di poesie e annota le sensazioni che queste gli conferiscono. Per questo
motivo ho scelto di raccontare questa storia, poiché per me era il miglior modo
per provare a spiegare il concetto di alterità in ambito poetico e la sua
cruciale importanza.
[1] Rimbaud, lettera a Georges Izambard; Charleville, 13 maggio 1871 e, due giorni dopo, lettera a Paul Demeny.