Ritradurre un classico: la nuova traduzione de Il Giovane Holden

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Conversazione con MATTEO COLOMBO

a cura di Renato De Capua

In foto: Matteo Colombo

Abbiamo il privilegio di poter ospitare l’intervista ad uno dei migliori traduttori italiani contemporanei, Matteo Colombo. Tra i tanti nomi autorevoli ai quali ha dato voce nella nostra lingua (si pensi a scrittori come DeLillo, Eggers, Chabon, Sedaris, Palahniuk, il romanzo da Pulitzer Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan), ha tradotto l’ultima edizione de Il giovane Holden, uscita in libreria per EINAUDI nel maggio del 2014. A nome di tutta la redazione di “Clinamen”, porgo i miei più sentiti ringraziamenti per il contributo offertoci, credendo fermamente che questa intervista possa essere, parafrasando lo storico greco Tucidide, uno κτῆμα ἐς αἰεί (Ktêma es aei), ovvero, un “possesso perenne” della consapevolezza di quanto siano importanti la traduzione, la figura del traduttore e, talvolta, la ritraduzione di un classico. Bisogna sempre tenere a mente che, quando leggiamo un’opera di un autore straniero nella nostra lingua, c’è sempre chi, al suo fianco, ha saputo dargli voce, attualizzando il messaggio della sua opera e rendendo valicabili le frontiere dei confini della distanza linguistica che muta nel tempo, è dinamica. E da questo dinamismo, l’esigenza di ritradurre un classico.

Holden ha ripreso vita nella tua traduzione e sicuramente non sarà stato un lavoro semplice approcciarsi a un testo così segnante per intere generazioni. Che cosa ha significato per te lavorare con un classico?

Nella pratica: un po’ di timore iniziale, il difficile confronto con un’altra traduzione di grande successo e molte soddisfazioni, tra le quali una visibilità insolita per il mio mestiere, che mi ha permesso di viaggiare, conoscere persone e scoprire un interesse per il “dietro le quinte” dei libri che non sospettavo. Più astrattamente, mi piace l’idea di aver agevolato un po’ l’avvicinamento a Holden per i lettori contemporanei.

Pensi che sia giusta la tendenza editoriale, affermatasi negli ultimi anni, che propone una ritraduzione dei classici?

Sì, la trovo salutare e in certi casi provvidenziale. Oggi i traduttori godono di una facilità di accesso alle risorse che in passato non esisteva, e questo permette di lavorare con più precisione. È anche aumentata la consapevolezza del mestiere e delle sue implicazioni; di traduzione si parla molto, viene studiata e sviscerata con un interesse che un tempo non esisteva. E al di là tutto, molteplici buone traduzioni restano un servizio reso alla complessità del testo.

Abbiamo letto, in un’altra intervista che hai rilasciato, che hai letto Il giovane Holden, tra i 14 e i 15 anni. Ti sei rivisto adolescente, mentre eri impegnato nella traduzione?

No, in quella direzione tendo a guardare poco. Ma il me adolescente era già molto interessato alle lingue, e da quella del vecchio Holden si era sentito un po’ respinto. Poter proporre un’alternativa ha in qualche modo chiuso un cerchio.

In un articolo apparso sul “Sole 24h”, Matteo Motolese ha scritto: “Se volete avere un’idea di come è cambiata la nostra lingua (letteraria) in cinquant’anni rileggetevi Il giovane Holden”. Quanto è cambiata, quindi, la lingua letteraria, in particolare, rispetto alle altre traduzioni italiane del libro?

Non sono sicuro che lo scarto fra la mia traduzione e quella precedente sia così esemplificativo dello spostamento di cui mi chiedi. Adriana Motti – fu lei stessa a dichiararlo – sentì di doversi inventare una lingua. Io no, non mi pareva che il testo lo richiedesse. Ho usato prevalentemente il passato prossimo, ripristinato le volgarità, conservato il più possibile le ripetizioni e prestato la massima attenzione al ritmo e al suono. L’effetto d’insieme credo sia quello di una maggiore agilità.

Qual è stata la difficoltà più grande che hai dovuto affrontare nella traduzione di questo libro?

Affrancarmi dalla traduzione precedente in modo non pretestuoso, trovare una voce diversa e coerente, e accettare di mantenere le soluzioni di chi mi ha preceduto quando non pervenivo a nulla di migliore.

È vera, secondo te, l’equazione TRADURRE = TRADIRE? Quanto è difficile per un traduttore nascondersi tra le righe?

Tradire è non solo inevitabile, ma il presupposto del mestiere. Traducendo si crea un testo nuovo. Quanto al nascondersi, dubito sia davvero possibile, e un eccessivo sforzo in quel senso rischia di nuocere all’immediatezza dell’approccio. Ma si può e si deve diventare bravi a ripulire le tracce del proprio passaggio.

Che cosa significa “fare il traduttore” nel 2018? Quali consigli daresti ai giovani che volessero fare dell’arte della traduzione il loro mestiere?

Se per “traduttore” intendi “traduttore letterario”, non so bene cosa risponderti. Negli ultimi anni non sono stato molto a contatto con i luoghi e gli eventi dell’editoria, e dubito di avere il polso della situazione. Credo che la traduzione letteraria resti un mestiere economicamente ingrato ma attraente per molti, per cui consiglio di armarsi di pazienza e di qualche altra fonte di reddito; il vero talento difficilmente passa inosservato. Ma tradurre significa fare mediazione culturale, e in quell’accezione le possibilità sono ampie, e se ne vanno creando di nuove (penso per esempio alla globalizzazione del mercato audiovisivo).

In un celebre passo del libro, Holden dice: “Mi fanno impazzire i libri che quando hai finito di leggerli vorresti che l’autore fosse il tuo migliore amico, per telefonargli ogni volta che ti va”. Se potessi chiamare J.D. Salinger, che cosa gli chiederesti?

Non lo farei, ammiro e rispetto chi si sottrae alla pubblicità lasciando parlare il proprio lavoro. Non mi chiedo chi sia Elena Ferrante, lo so.

Quanto pensi che sia attuale Il giovane Holden oggi?

Personalmente non lo trovai attuale neppure venticinque anni fa. Immagino che lo sia stato quando uscì, per il modo nuovo di ricostruire e rappresentare la lingua di una certa fascia di popolazione americana, ma evaporato quell’elemento resta un romanzo con un valore storico-letterario che racconta i sentimenti dell’adolescenza. Quelli non credo che passeranno mai di moda.

Come è nata la tua passione per la traduzione? Qual è stato il primo libro che hai tradotto?

È nata leggendo fumetti di supereroi in lingua originale con il dizionario a portata di mano, e il primo libro che ho tradotto è stato Crocodilia di Philip Ridley per Mondadori.

A quale traduzione stai lavorando oggi?

Marjorie Prime di Jordan Harrison, un testo teatrale. Parla delle possibili evoluzioni del rapporto fra vita umana e intelligenza artificiale, e andrà in scena al Teatro Franco Parenti di Milano nel 2019.