a cura di Renato De Capua
Antonio Prete ha insegnato Letterature comparate all’Università di Siena e ha tenuto corsi e seminari presso istituzioni internazionali, tra cui il Collège de France e la Harvard University. Autore di saggi, narrazioni e poesie pubblicate in diverse lingue, ha tradotto in italiano Baudelaire (I fiori del male), Mallarmé, Rilke, Valéry, Jabès, Bonnefoy.
Le sue traduzioni poetiche sono raccolte in L’ospitalità della lingua (2014). Tra i saggi, Il pensiero poetante (1980 e successive edizioni), Nostalgia (1992, ed. ampliata 2018), Prosodia della natura (1993). Le raccolte di poesia: Menhir (2007, Premio Metauro), Se la pietra fiorisce (2012), Tutto è sempre ora (2019, Premio Bodini). Le prose narrative: L’imperfezione della luna (2000), Trenta gradi all’ombra (2004), L’ordine animale delle cose (2008). Presso Bollati Boringhieri sono usciti: Trattato della lontananza (2008), All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (2011), Compassione. Storia di un sentimento (2013), Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (2016, Premio Mondello), La poesia del vivente. Leopardi con noi (2019).
“Clinamen – un passo oltre il confine” ha avuto il privilegio d’incontrarlo e di dialogare insieme sul rapporto tra la letteratura e la vita; sul mestiere di critico e di traduttore; sulla lontananza e il legame con la propria terra natale. I suoi lavori di scrittura sono stati il punto di partenza del nostro viaggio, nonché il punto di arrivo verso nuove splendide attese.
Quali sono stati i suoi maestri?
Se pensiamo ai maestri in senso accademico, devo dire che Mario Apollonio, con il quale sostenni la tesi di laurea in letteratura italiana e la tesi di perfezionamento in filologia moderna, è stato un forte punto di riferimento negli anni della formazione: soprattutto per la sua idea di critica come esegesi, cioè come ascolto del testo, della sua parola, in rapporto al proprio interrogare e cercare, al proprio cammino interiore, ma anche per lo sguardo sulla tradizione letteraria italiana che muoveva da punti di osservazione non nazionali, ma europei e mediterranei, e per l’idea che la letteratura è in dialogo costante con le diverse forme artistiche, tra queste il teatro e le arti figurative, compreso il cinema.
Ma poi maestri più prossimi, per dir così, negli anni in cui l’attività dello scrivere era diventata per me essenziale, sono stati poeti e scrittori che ho avuto modo via via di incontrare e che mi hanno fatto dono della loro amicizia: penso a Edmond Jabès, i cui libri ho tradotto in italiano, a Mario Luzi, con il quale ho intrattenuto un dialogo costante sulla poesia, a Yves Bonnefoy, che ho incontrato più volte, e ho tradotto, e del quale ho sempre ammirato l’esercizio di una scrittura poetica non separato dall’esplorazione dei saperi. Ritengo comunque che le relazioni – di lettura e di incontro reale – con amici poeti e scrittori siano momento rilevantissimo di una formazione.
Quando è iniziato il suo interesse per Leopardi e Baudelaire? Che cosa lega questi due grandi autori?
Leopardi già nell’adolescenza mi conquistava: mandavo a memoria alcuni Canti, provavo a scrivere versi, approssimativi, seguendo la sua musica, guardavo la luna salentina alta sopra gli ulivi pensando alla sua luna appenninica, evocando i suoi versi. Alla maturità (liceo classico Palmieri, a Lecce) ebbi un tema sulla poesia di Leopardi, un tema di impostazione crociana nella traccia, che svolsi, azzardando, in forma narrativa, per una larga parte, ma dicendo comunque della poesia.
Il professore d’italiano della commissione, all’orale, mi disse che aveva apprezzato questo ardimento e m’invitò a dedicarmi soltanto, decisamente, alla scrittura. Ma mi scrissi a Lettere, Milano Cattolica (lì c’erano borse di studio), perché volevo insegnare: per vocazione, diciamo, ma anche per necessità di un lavoro immediato (lavoro che svolsi, in forme varie, anche negli anni dell’Università: correzione di bozze, ripetizioni). Comunque subito dopo la tesi la scrittura, nelle sue varie forme, è stata occupazione assidua (collaborazioni a riviste, in particolare).
Il primo studio su Leopardi fu un saggio pubblicato sulla rivista “Per la critica”, nel 1973, dedicato alla Ginestra, intitolato Leopardi e il sapere della morte. Sulla stessa rivista alcuni mesi prima, nel primo numero, avevo scritto il mio primo saggio su Baudelaire critico, Salon Baudelaire. “Per la critica” era una rivista di teoria che facevamo nei primi anni Settanta con un gruppo di amici giovani, un gruppo animato da un intellettuale come Gianni Scalia, che veniva da altre esperienze di riviste novecentesche, come “Officina” (con Pasolini, Fortini, Leonetti e altri).
Nell’ambiente della rivista, in un incontro bolognese intitolato Eros, eversione, merce, incontrai Pasolini. Partecipavo attivamente, tra Milano e Bologna, alla redazione della rivista (anche portando le bozze in tipografia).
Quanto a Leopardi e Baudelaire, sono due classici che non ho più abbandonato.
Mi hanno sempre fatto compagnia, e in forme diverse sono sempre tornato ai loro versi, al loro interrogare. Ho rinviato a lungo un saggio che li metta insieme: non so se mai lo scriverò, quel saggio. Ma molto hanno in comune, i due grandi classici. Il fiore e il male – il nesso tra il fiore e il male – è quel che, per usare una sorta di emblema, li avvicina. Pur di generazioni diverse, con linguaggi e orizzonti diversi hanno dialogato tra di loro intorno a grandi temi come la bellezza, il fuggitivo, il dolore, la pietà, la poesia e il tragico nella modernità…
In “Sottovento – critica e scrittura” (Manni, 2001) si legge: “la parola, in un libro, ha nascosto la sua voce, per disporsi, inerte sequenza di grafemi, negli spazi e nei tempi della pagina, tra i vuoti e i silenzi che l’assediano”. Quali sono gli strumenti che un critico letterario deve saper adoperare?
Anzitutto l’ascolto, il porsi in stato di ascolto dinanzi al testo, alla sua lingua, ai suoi silenzi. Poi, non separare mai, nell’attenzione e nell’ascolto, il suono dal senso, la lingua dal discorso, il ritmo dall’idea, insomma la forma dal significato. Inoltre si tratta di stare dinanzi a un testo cercando di porre domande e di lasciarsi interpellare dalle domande del testo, in una sorta di colloquio mai passivo.
L’atto critico non è che il passaggio dall’ascolto alla scrittura. Un atto nel quale è necessario essere se stessi, cioè avere un proprio modo, un proprio stile. La critica come racconto dell’esperienza propria di lettore. Se la critica è scrittura, vuol dire che comprende la forma, le forme, del dire e la singolarità, lo stile, di colui che dice.
Il critico non come uno che classifica, giudica, ordina secondo schemi da storiografia letteraria, colloca in alto o in basso, cataloga secondo valori, ma come uno che sa stare nel bianco della pagina, nel margine del testo che legge, e da lì muove, attraverso l’ascolto, verso la propria scrittura.
È corretto affermare che “l’arte della traduzione è un’operazione di scrittura”? Che cosa si cela “all’ombra dell’altra lingua”?
Sì, la traduzione ha tutte le implicazioni della scrittura, colui che traduce è di volta in volta un poeta se traduce poesia, un narratore se traduce narrazioni, un saggista se traduce saggi. Questo, al di là se lo sia come suo principale mestiere: nel momento in cui traduce lo è, perché fa esperienza piena del linguaggio, e del movimento che trasmuta un testo in un nuovo testo, insieme specchio o riedificazione o resurrezione del primo e altro dal primo.
Trasmutazione nella propria lingua. E una lingua è tradizione, invenzione, stile, identità. Certo, si traduce stando sempre “all’ombra” dell’altra lingua, all’ombra dell’altra scrittura, ma quell’altro testo rinasce, prende nuova vita, nella propria lingua. Questo è il filo che tesse le pagine che ho dedicato alla traduzione e che ho intitolato appunto All’ombra dell’altra lingua. Sottotitolo: per una poetica della traduzione.
Ho sempre ritenuto importante sottolineare la responsabilità di colui che traduce nei confronti della lingua da cui traduce, e contemporaneamente nei confronti della propria lingua: si tratta di ospitare nella propria lingua un’altra esperienza, con un suo timbro, un suo tono, una sua vita. E l’ospitalità è degna se l’accoglienza è appropriata, se la propria casa è resa accogliente: con l’esercizio, lo studio, l’esperienza propria di scrittura.
Nella sua poesia “Verso la parola” (tratta da “Tutto è sempre ora”, Einaudi 2019) si legge: “quel punto dove il silenzio si sporge/oltre il tacere, forse è il nido/delle parole […]”. Che cosa può la letteratura nei riguardi dell’uomo?
Quei versi dicono del silenzio, della necessità che il silenzio sia il tappeto vero della poesia, la sua anima. Il silenzio inteso non come negazione della parola, sosta, interruzione – “tacere” – ma come movimento che andando verso la parola la sostiene, la abita: contro il rumore del mondo, contro l’usura e l’abuso della parola stessa.
Scrivere versi per me è stare nell’esercizio del meditare, dell’interrogare, in attesa che la parola si allei con la musica, si faccia musica senza abolire il senso, cioè l’interrogazione su di sé e sul proprio tempo.
Quanto alla letteratura, essa non salva, ma dà punti di osservazione, di comprensione, e assiste l’immaginazione, i sensi, tiene vivi i sentimenti, e aiuta a entrare in relazione con l’altro – l’altro che è poi principio della nostra identità, del nostro conoscerci e riconoscerci – ma anche con l’altrove, di un altrove che è respiro del qui, e dell’ora.
In Carte d’amore (Bollati Boringhieri, 2022) lei ha raccolto molti esempi e figure dell’amore attraverso varie forme di rappresentazione artistica. Quali le sono particolarmente cari?
Sì, il libro si svolge nella prima parte per figure, che sono come dei luoghi intorno ai quali si raccoglie e definisce la lingua dell’amore: dall’apparizione alla confidenza, dalla fascinazione alla gelosia, dalla tenerezza alla lettera d’amore, e così via. Dopo l’intermezzo, che racconta il Simposio di Platone, c’è una seconda parte che cerca di esplorare il paesaggio dell’amore – il giardino, la selva, il mare, la stanza ecc. – non come cornice ma come presenza che partecipa alla lingua dell’amore, al suo definirsi.
Quali figure ho sentito di più? Diciamo che ci sono alcune figure alle quali avrei dato più spazio, ma avrei rotto l’equilibrio di un saggio. Sono la tenerezza, per esempio, o l’ agape. La tenerezza come lingua mite della passione d’amore, insieme cura dell’altro e dolcezza, relazione di prossimità che sa piegarsi sull’altro; e l’agape come passaggio dall’altro come individuo all’altro come comunità, senza che questo passaggio sminuisca l’amore.
Un’altra tematica esistenziale sulla quale ha riflettuto è stata la lontananza. Perché proprio ciò che è lontano è stato da sempre suggestione tensiva, anelito verso la scrittura e il racconto, in molti autori della storia letteraria?
La lontananza è un campo di indagine intorno al quale ho lavorato, tenendo per alcuni anni corsi universitari relativi a temi come l’addio, la nostalgia, la rappresentazione dei cieli nella poesia ecc. Il lontano, nella forma greca – tele – va a comporre i termini che dicono i mezzi della comunicazione contemporanea, dal telefono alla televisione.
Ebbene, quel lontano la letteratura lo tiene aperto, lo fa attraversare con la collaborazione immaginativa del lettore, mentre la tecnica del nostro tempo, appunto telematica, tecnica del lontano, lo riduce nella prossimità visiva del monitor, riducendo spesso la collaborazione immaginativa e attiva dello spettatore.
Si tratta di partecipare attivamente a tenere vivo lo spessore della lontananza, la sua presenza, cioè il rapporto interiore con l’altrove, con l’assente, con l’orizzonte: di questo si alimenta il linguaggio della letteratura e delle arti. Dopo la traduzione spagnola del Trattato della lontananza, alcuni lettori spagnoli hanno aperto un blog, tratado de la lejania, dove si susseguono immagini della lontananza, raffigurazioni che invitano l’immaginazione a misurarsi con l’oltre.
Lei è originario del Salento, ma ha poi vissuto e insegnato a Siena. Quanto è profondo il legame con la sua terra d’origine e come si riverbera all’interno del proprio sentire?
Il Salento è terra d’origine e di frequenti ritorni. È presente nei miei versi, nelle narrazioni, perché è il paesaggio fisico e umano che mi ha formato, e che è diventato non solo deposito di ricordi, ma linea di confronto, richiamo di alcune presenze che agiscono nella scrittura: la luce, la terra, le architetture, i paesi con i loro colori e le loro storie, la lingua e le lingue, la memoria popolare, la musica popolare, il lavoro sulla terra, le migrazioni, la povertà, la campagna. E, soprattutto, il mare.
Ma anche gli aspetti dolorosi di una terra di privazioni e di un paesaggio che di recente è stato trasformato dalla Xylella: dramma che non è diventato una questione nazionale, come avrebbe dovuto essere, da subito. Quanto alla presenza del Salento, della sua luce, delle sue forme, nella mia scrittura, i libri di poesie, in particolare l’ultimo, Tutto è sempre ora, uscito presso Einaudi, cercano di raccoglierne riverberi. Come è accaduto anche con le prose del libro L’imperfezione della luna, di Feltrinelli, 2000.
E al Salento ho dedicato qualche anno fa esplicitamente un libro per dir così descrittivo, e di memoria, insieme: un viaggio nelle sue terre, nelle sue coste, nelle sue tradizioni, Torre saracena, per le edizioni Manni. Cito questi libri per dire quanto sia forte il legame con il Salento e come alimenti alcune stazioni del mio lavoro di scrittura.