Intervista a Omar Di Monopoli

di Lorenzo Di Lauro

Questo mese abbiamo il piacere e l’onore di intervistare Omar Di Monopoli, uno degli scrittori più famosi degli ultimi anni. La sua produzione è cominciata verso la fine degli anni novanta, trovando con il tempo un pubblico affezionato che è cresciuto sempre di più, in Puglia, in Italia e anche all’estero. Ha pubblicato con alcune delle case editrici più prestigiose, da ISBN ad Adelphi, mentre recentemente è approdato in Feltrinelli, per la quale in estate uscirà il suo prossimo, atteso romanzo. 

Quali sono stati i suoi approcci nel mondo della scrittura e quali le letture predilette con cui ha iniziato?

Il mio approccio con la scrittura nasce da una commistione di fattori che hanno interessato la mia formazione autoriale: anzitutto la predilezione pressoché sconfinata per un certo cinema, quello di Sergio Leone in primis con la sua declinazione della frontiera americana in chiave tutta italica, ma sono soprattutto  i modelli narrativi d’oltreoceano ad aver forgiato la mia penna, principalmente il Southern-Gothic: un genere letterario che annovera tra i suoi padri fondatori personaggi del calibro di William Faulkner e Erskine Caldwell nonché Truman Capote e l’immensa, irraggiungibile Flannery O’Connor. Poi in tutto questo ha ovviamente una parte fondamentale l’amore per la mia terra, la Puglia, per la quale nutro una passione indomita e conflittuale che mi spinge a rappresentarla come il crogiolo di ogni peccato ma anche al tempo stesso come un paradiso mozzafiato, unico e irraggiungibile. Su questa mescolanza di suggestioni s’innesta infine il lavoro sulla lingua, la “mia” lingua, che è fatta di variazioni auliche e di vernacolo, di puro spirito pulp e afflato lirico e di una costante, faticosissima ricerca della “parola perfetta” (che naturalmente non arriverà mai).

Foto Video 2000 di Salvatore Caraglia

Molti la considerano l’inventore del western pugliese. Quanto ha inciso nella sua produzione il legame con la sua terra?

Come dicevo sopra il legame con le mie radici è assolutamente centrale, nella mia “prospettiva artistica”. Non credo scriverei come scrivo se non stessi cercando romanzo dopo romanzo di decodificare il posto in cui sono cresciuto, cercando semmai di apprendere da esso una qualche lezione universale. Quanto alle etichette editoriali come quella del western è facile fare chiarezza: se essere definito un autore di genere (e oggi anche gli scrittori provenienti dal Meridione sono un genere) aiuta la veicolazione dei miei libri, e quindi del mio operato, ben venga: i giornalisti sono perennemente all’inseguimento del fenomeno del momento e se “appartenere” a una qualche corrente – anche quando essa sia fittizia – comporta un incremento di promozione io non mi tiro indietro perché il mio principale interesse è che ciò che scrivo finisca nelle mani di un numero sempre crescente di lettori. Se però etichettare un autore significa sminuirne l’impatto o il portato letterario, bhé, ovviamente non sono d’accordo e sono pronto a metter mano alla pistola per difendermi!

Nel corso della sua carriera è stato autore di numerosi romanzi, da Uomini a Cani a Nella perfida terra di Dio. Ce n’è uno a cui è maggiormente legato o di cui è particolarmente soddisfatto?

Non smetterò mai, credo, di amare Uomini e cani, il mio primo romanzo, vincitore del premio Kilhgren Città di Milano e mio primo, vero esordio al di là dei confini cittadini. Un libro che mi ha portato a conoscere situazioni e autori coi quali mai avrei immaginato di lavorare e che continua a darmi soddisfazioni (è in lavorazione una trasposizione cinematografica) e non è detto che, dopo la versione a fumetti di «Nella perfida terra di Dio» prevista per settembre, la Bonelli non decida di far diventare anche questo una graphic novel.

Oltre ai romanzi, occasionalmente collabora anche con alcuni quotidiani nazionali come la Stampa o Il Fatto Quotidiano. Qual è la principale differenza tra i due approcci?

La mia collaborazione coi giornali attiene comunque al mondo della cultura, salvo i rari casi in cui scrivo di cronaca e costume, ma il mio principale campo di pertinenza resta la letteratura e il cinema con qualche capatina nel mondo della psicanalisi (sono un appassionato, ultimamente mi hanno chiesto di recensire anche saggi di questa materia). Comunque direi che il tipo di scrittura richiesta dai giornali è più diretta, meno carica dei miei ormai caratteristici barocchismi (la mia è una ricerca linguistica volutamente espressionista) in favore di un periodare più secco, conciso e determinato. Sono diventato anche bravino, almeno a sentire le attestazioni di stima dei colleghi, e il lavoro di recensore per i quotidiani ancor più che quello di giornalista a tutto tondo mi sta dando numerose soddisfazioni.

Recentemente è approdato in Feltrinelli, dopo aver trascorso alcuni anni in Adelphi, due delle più importanti case editrici in Italia. Può anticiparci qualche progetto futuro?

Al momento sono impegnato in uno strepitoso lavoro cinematografico del quale spero di poter parlare presto nel dettaglio, ma giuro che è una bomba! Poi ci sono i libri in uscita, certo, la cui pubblicazione è stata spostata di qualche mese a causa della pandemia, ma è tutto pronto, ci siamo: il libro per Feltrinelli si intitola Figli della cenere e non dico altro perché presto partirà la campagna di promozione. Infine le uscite straniere, altrettanto importanti: oltre a quella spagnola – in atto – ci sono altri paesi europei sui quali stiamo lavorando.