a cura di Renato De Capua
MICHELA MARZANO (Roma, 1970) è professore ordinario di filosofia morale all’università Paris Descartes, editorialista de “la Repubblica” e autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue. In Italia ha pubblicato, tra gli altri, Volevo essere una farfalla (2011), L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore (Premio Bancarella 2014), Papà, mamma e gender (2015). Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato i romanzi L’amore che mi resta (2017) e Idda (2019).
Quanto è importante per l’uomo l’incontro con l’altro?
È nell’incontro con l’altro che la soggettività di ognuno di noi emerge, si sviluppa, si realizza. È solo grazie al “viso” dell’altro, come direbbe Levinas, che l’io si riconosce, riconoscendo al tempo stesso la necessità del rispetto reciproco. L’alterità altrui ci permette di confrontarci con la nostra stessa alterità, e di fare pace anche con quegli aspetti di noi che talvolta facciamo fatica ad accettare.
Nel suo romanzo, IDDA, c’è una frase che dice: “In amore si prende, altrimenti non è amore”. Siamo abituati a sentire che “in amore si dà”, qual è il motivo di questa differente connotazione?
Diciamo che l’amore, quello vero, si riconosce quando si è in presenza di una persona che ci permette di essere liberi di essere noi stessi, senza chiederci di cambiare, di migliorare, di diventare “altro” rispetto a ciò che siamo, anche se siamo “meno” rispetto alle aspettative nostre e altrui. Si tratta di uscire dalla logica del “do ut des” per entrare nella logica dell’accettazione e del riconoscimento.
A pag. 56 si legge: “Ci sono parole che creano confusione e parole che rasserenano. Parole che scavano una distanza e parole che costruiscono ponti.” Qual è, secondo lei, il compito della letteratura?
Diciamo che, secondo me, la letteratura serve a costruire ponti. È anche per questo che, dopo tanti saggi, in questi ultimi anni ho deciso di consacrarmi alla scrittura letteraria. Attraverso un romanzo, d’altronde, si riesce a parlare dell’esistenza e degli affetti in modo molto più profondo. In fondo, scrivere un saggio è più semplice: c’è un’ipotesi, c’è una struttura, c’è un andamento logico-argomentativo, ci sono i riferimenti bibliografici. In un saggio, tutto torna. Quindi bene quando si vuole dimostrare qualcosa e portare avanti un ragionamento coerente. Col rischio, però, di lasciare da parte tutto ciò che nella vita non torna e non può quindi essere spiegato o argomentato. In un romanzo è tutto molto diverso. È scrivendo che pian piano emergono i sentimenti, le contraddizioni dell’esistenza, gli insuccessi e le speranze. Tutto ciò che, in fondo, costituisce il tessuto delle relazioni umane. In un romanzo non si tratta di spiegare, ma di mostrare, di raccontare, di sorprendersi, a volte, di fronte alle azioni e alle dichiarazioni dei propri personaggi. È solo quando si mostra e si racconta che si riesce poi anche ad esplorare quelle zone d’ombra dell’umano sentire che la saggistica, spesso, si limita a sfiorare.
Sempre nel suo romanzo, si legge: “Le parole designano, indicano, mettono in ordine.” L’uomo di oggi, secondo lei, che cosa prova quando deve trovare le parole giuste?
Credo che il problema per tante persone, oggi, sia proprio la difficoltà a trovare queste parole. Viviamo in un mondo in cui è più facile urlare e insultare che spiegare, convincere, raccontare. Sebbene poi, quando mancano le parole, il rischio non è solo quello di ferire gli altri, ma anche quello di farsi del male da soli. Quando mancano le parole giuste, non si riesce nemmeno a esprimere ciò che si vive o ciò che si prova. Come si fa in questo modo a costruire relazioni?
Ci sono ricordi di cui possiamo veramente fare a meno?
Il punto di partenza del romanzo è l’idea che ognuno di noi è sempre e solo il frutto del proprio passato, è impastato di memoria, sa verso dove dirigersi soltanto perché si ricorda da dove viene. Poi, lavorando sul tema della perdita della memoria, ho capito che la realtà umana è molto più complicata, e che anche quando pezzi interi della nostra esistenza scivolano via, restano comunque dei “residui di sé”. Quando Alessandra discute con la dottoressa Brun e le chiede cosa resti di Annie, la madre del suo compagno, ora che Annie non riconosce quasi più gli oggetti e le persone, non riesce a vestirsi o lavarsi da sola, pensa di essere ancora una bambina e non ricorda nulla del marito o del figlio, la dottoressa le risponde che anche allo stadio più avanzato di una malattia neuro-degenerativa, quando i centri fisici della memoria sono quasi del tutto distrutti, rimane la percezione di quello che accade, rimane l’affettività. Ecco perché, anche se è dolorosissimo per un figlio o una figlia non essere riconosciuti dalla madre o dal padre, non si dovrebbe mai dimenticare che in queste persone resta un sentimento di familiarità, a tratti ineffabile, a tratti indescrivibile, e che però, nonostante tutto, perdura, e va ben al di là della malattia.
Che consiglio sente di dare a tutte quelle persone che si trovano a convivere o ad assistere con persone affette da perdita di memoria, proprio come Annie?
Un genitore può anche non riconoscere più un figlio o una figlia, può anche pensare che colei (o colui) che occupa di lei sia la madre, oppure una sorella, oppure anche il marito. Ma l’amore resta, e rende feconda la relazione. Anzi. È attraverso quella nuova relazione che talvolta un figlio o una figlia riescono a fare la pace con loro stessi e con il proprio passato. “Amore è stata l’ultima parola di mia madre negli ultimi istanti della sua vita” mi ha recentemente scritto una donna dopo aver letto Idda. “Non ricordava più nulla del passato tranne il suo amore per me. Lo posso testimoniare”. Esattamente come io posso testimoniare che è grazie alla malattia della madre di mio marito che ho capito la forza di quest’amore che sopravvive all’oblio.
Com’è per Michela Marzano tornare in Salento?
È una grande emozione. È qui che affondano le mie radici, è qui che riesco anche io, come Alessandra, a fare la pace col mio passato e con i miei ricordi. E poi c’è la gente, c’è l’affetto dei lettori e delle lettrici, ci sono i colori e i sapori e gli odori della mia infanzia. Insomma, è un ritorno a casa.