a cura di Renato De Capua
Il tempo è un pozzo nero. E la magia che
abbiamo in mano noi musicisti
è quella di stare nel tempo,
di dilatare il tempo, di rubare il tempo.
EZIO BOSSO
Giacomo Marti (voce) e Fabio Ciccardi (chitarra) sono due musicisti originari della provincia di Lecce. Insieme hanno dato vita al gruppo musicale La Tesi di Smith. I testi e le musiche sono a cura di Giacomo Marti e Fabio Ciccardi, mentre la produzione artistica è a cura di Lorenzo Negro.
Vincitori del NEW SOUNDS MUSIC CONTEST del 2017 (sezione inediti), hanno pubblicato il loro primo album “Riparto” nel medesimo anno. Il 2020 ha visto invece la nascita di due nuovi loro singoli Filtrino e DPCM. Potrete ascoltare dal vivo La Tesi di Smith il 17 settembre a Galatina (LE) e il 15 settembre a Milano (nuove date in aggiornamento in Italia). In attesa della pubblicazione del loro secondo album, abbiamo ripercorso i loro esordi, riflettendo su alcuni loro brani già editi, sul senso della musica e il futuro.
A voi, La Tesi di Smith.
Quali sono stati i vostri inizi? Come vi siete conosciuti?
Ci siamo conosciuti a Lecce nella facoltà di economia aziendale dell’Università del Salento e abbiamo scoperto di avere una passione comune per la musica. Così abbiamo iniziato a suonare, facevamo delle cover, ma poi man mano abbiamo capito che volevamo di più. Volevamo dire qualcosa di nostro. L’esigenza è nata dal fatto che, eseguendo un repertorio esclusivamente coveristico, dopo un po’ di tempo ci sembrava quasi di lavorare in una catena di montaggio.
Così spinti dalla voglia di dire la nostra, abbiamo iniziato a scrivere.
A quali generi musicali vi siete ispirati?
Ci siamo sempre ispirati al blues e rock. Siamo stati influenzati molto da Paolo Nutini, anche se il suo è in realtà un country blues; e poi i Blues Brothers, i Coldplay e i Negrita.
Inizialmente vi chiamavate “Those Who Never Play”, ma siete “La Tesi di Smith”. Ci spiegate la scelta di questi nomi originali?
Abbiamo cominciato con Those Who Never Play perché quando all’inizio avevamo un repertorio unicamente incentrato sulle cover, cercavamo di suonare un po’ ovunque, ma c’era difficoltà a trovare la disponibilità di serate in cui esibirsi e anche quando riuscivamo a trovarle, puntualmente accadeva qualcosa per cui non potevamo suonare. In realtà poi la nostra musica ci ha portati in giro per molti luoghi e ci ha fatto conoscere molta gente. Il nome La Tesi di Smith, che è quello che poi abbiamo scelto come definitivo per questo progetto, è ispirato a una teoria di Adam Smith, “la teoria della mano invisibile”, che ci sembra rispecchi anche la nostra storia. Come dicevo prima, ci siamo conosciuti nella facoltà di economia aziendale, una strada che poi in realtà ci ha portato, in maniera quasi imprevista, a dar vita a questo progetto e a capire che fare musica è quello che vogliamo davvero.
Secondo la Tesi di Smith, tutte le cose avvengono in maniera automatica e ogni cosa che avviene ha un perché, anche ciò che può apparire di primo acchito casuale e immotivato.
La vostra musica parla della sfera esistenziale dell’uomo, dei piccoli grandi problemi che accomunano catene di uomini lontane nel tempo e nei luoghi. Così nei vostri testi c’è spazio per la vostra terra, l’amore, l’onirico, la voglia di libertà che l’uomo prova a esprimere attraverso il proprio slancio vitale. E ancora si parla della violenza sulle donne, dell’omertà sociale che attraverso il silenzio riesce a soggiogare le menti, alienandole. La musica può essere una via di fuga per evadere da tutto questo?
Sicuramente sì. Nel nostro primo album “Riparto” abbiamo affrontato diverse tematiche.
Infatti è un concept album ed esprime l’esigenza comune nella vita di ognuno di ripartire. Ogni brano racchiude una storia e un messaggio, con apertura alla progettualità edificante e alla speranza di una condizione migliore.
“CATENE DI UOMINI” è un brano nato da un sentimento di rabbia che avevamo perché è stato scritto nei giorni in cui c’erano stati dei veri e propri tafferugli tra la polizia e i protestanti. Si fa riferimento ai moti del Movimento NO TAP contro il corridoio Sud del gas, per la tutela e la salvaguardia dei territori. L’immagine di quei giorni ci ha dato un grande senso di rabbia, ci sembrava di vivere in una dittatura. La forma musicale che abbiamo adottato non è casuale, infatti, si rifà alle atmosfere e ai ritmi del reggae, genere che ha origine in Giamaica, ma molto ascoltato e ballato in Salento. Il nostro intento è stato quello di esprimere un concetto e di provare a sensibilizzare coloro che ne erano rimasti indifferenti. Il testo è di denuncia, ma anche di speranza; speriamo che possa essere una traccia per tutti coloro che verranno.
“MI LIBERERÒ DI TE” è un brano che parla della violenza sulle donne. Essendo uomini è difficile capire che cosa si prova. Quando abbiamo pensato a quest’argomento e in particolare a una storia che ci aveva molto colpito, non sapevamo come affrontare la tematica.
Ogni volta che lavoravamo su questo testo, ci sembrava di non dare il giusto peso e anche ora quando lo eseguiamo in pubblico, abbiamo sempre quella paura, quel pudore e quel rispetto che si devono provare davanti a una questione delicata. Sebbene siano trascorsi alcuni anni dalla prima esecuzione in pubblico di questo brano, a Lecce al teatro Paisiello nel 2017, anche nell’ultimo live che abbiamo fatto a Milano pochi giorni fa ci siamo emozionati nell’eseguirlo e non solo è tra i nostri preferiti, ma è anche tra i più difficili a livello tecnico del nostro repertorio.
“STELLA A TRE PUNTE” è una ballad dedicata a tutti coloro che nella vita rappresentano i punti di riferimento, “le stelle fisse”. Le immagini che vi sono descritte – dice Giacomo Marti – rievocano un po’ la mia infanzia, il tempo trascorso con i miei due fratelli fatto di complicità e di autenticità, valori che porto con me ovunque vada.
Il vostro ultimo lavoro è un brano del 2020 dal titolo “DPCM”. È questo un esempio di come la musica sia un valido strumento per cogliere il tempo e una fase storica piuttosto atipica e critica della nostra attualità. Come è nato questo brano?
DPCM trae spunto da una nostra videochiamata, come si può ben intuire dai riferimenti a una connessione non sempre stabile e dalle immagini talvolta poco nitide. La tecnologia durante la pandemia è stata la via di fuga per non perdere i contatti, l’aderenza con la realtà e il posto di lavoro. Il poter parlare, vedersi in tempo reale e anche lavorare, è stato ciò che più ci ha dato coraggio. Avere la possibilità di vedere e di parlare con un amico in un momento di sconforto, è quello che forse ha dato forza a molte persone. DPCM è un brano molto descrittivo e racconta la giornata tipica che tutti noi abbiamo vissuto durante il periodo di chiusura; un tempo sì rarefatto e denso di preoccupazioni, ma anche rassicurato dalla presenza virtuale delle persone che amiamo. Anche in questo brano, come in quelli del primo album, si auspica a una prospettiva futura rasserenante. Il pensiero di un domani migliore aiuta ad affrontare le difficoltà del presente.
Che cos’è per voi la musica?
Vogliamo fare musica per far sentire a qualcuno quello che effettivamente abbiamo da esprimere. Non ricerchiamo la notorietà, ma crediamo fermamente che la musica sia un linguaggio universale e uno strumento di condivisione. Essere musicisti dà la possibilità di poter condividere dei pensieri e delle idee insieme a qualcun altro. E forse anche di riscoprire se stessi attraverso l’interazione con gli altri.
Quali sono i vostri progetti futuri?
Stiamo lavorando già da un po’ di tempo a un nuovo album. Abbiamo pubblicato due singoli che segnano un nuovo inizio rispetto a “Riparto”, ovvero “Filtrino” e “DPCM”. Anche a livello di sound, stiamo sperimentando nuove sonorità, cercando di mantenere una certa identità riguardo alla scrittura. Il nuovo album rappresenterà forse la nostra crescita personale, maturata nel corso degli anni che ci separano dalla pubblicazione del primo disco.