Renato De Capua
Ivan Canu, nato a Alghero, dal 1996 lavora a Milano come illustratore, critico e scrittore. È stato art director della Fondazione Internazionale Balzan (1998-2001) e graphic designer della rivista Hystrio, (1998-2004). Ha scritto alcuni libri per l’infanzia editi in Italia, Francia, Giappone, Cina, Corea; ha scritto articoli e interviste per La Repubblica, La Stampa. Dal 2009 è direttore del Mimaster di Illustrazione di Milano. Dal 2017 cura l’Illustrators Survival Corner per la Bologna Children’s Book Fair ed è autore con Giacomo Benelli dell’Illustrated Survival Guide edita da Corraini. Fra i suoi clienti: L’Espresso, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, The New York Times, The Boston Globe, Die Zeit, L’Express, The Guardian, The Courrier International, Handelsblatt, Yahoo.com, Salani, Centauria, De Agostini, Feltrinelli. È stato premiato negli Annual della Society of Illustrators di New York, di American Illustration, Creative Quarterly, Communication Arts, 3×3. È rappresentato da Salzman International (salzmanart.com) e dalla Galleria L’Affiche di Milano (affiche-fineart-shop.it)
Quali sono stati i suoi esordi? Quando è nata la passione per l’illustrazione?
Mia madre ricorda come inizio un concorso del quotidiano sardo La Nuova Sardegna al quale i miei genitori mandarono un mio disegno — avevo 4 anni — che rappresentava soluzioni creative alla crisi energetica dei primi anni ’70 (quella che portò alla nota “austerity”). Mi premiarono con un libro di racconti di Tolstoj (di cui avrei molti anni dopo illustrato le copertine per Feltrinelli). Era un topo che da una pompa di benzina metteva acqua nell’auto. Un segno del futuro che mi avrebbe visto illustratore e mai patentato. Fuori dall’aneddotica, l’idea di diventare illustratore professionista è venuta negli ultimi anni di università, quando già disegnavo per mio conto personaggi per storie che scrivevo, piccoli fumetti da temi letterari (Medea), ritratti. Un incontro con un editor della Vallecchi mi suggerì di continuare su quella strada, poi nel corso dell’estate di tregua fra la consegna della tesi in Storia del teatro contemporaneo e la laurea, feci amicizia con Bruno Enna (gran sceneggiatore di fumetti, anche lui sardo) e mi spinse ad andare con lui a Milano per frequentare i corsi pomeridiani di Illustrazione della Scuola del Fumetto. Lì, a contatto col disegno per tutto il giorno, conoscendo illustratori come Gianni De Conno e Libero Gozzini, ho deciso che sarebbe stata una delle mie professioni (dato che a 24 anni ero nella redazione della rivista di spettacolo Hystrio, nella quale ho lavorato per oltre 8 anni). La conferma che avrei dovuto fare questo lavoro con serietà e dedizione l’ho avuta lavorando con Ferenc Pintér nei suoi ultimi 10 anni di vita, commissionandogli alcune copertine di Hystrio e soprattutto trascorrendo ore nel suo studio a parlare di ogni cosa, film, teatro, religione, politica, storia e anche illustrazione. Lo considero il mio maestro e gli ho in parte dedicato le illustrazioni de La Storia del Comunismo in 50 ritratti (ed Centauria, 2018) scritto da Paolo Mieli.
Lei è un affermato illustratore e lavora per grandi testate giornalistiche e case editrici, nazionali e internazionali come: Salani, Feltrinelli, De Agostini, Il Sole 24 Ore, La Repubblica e molti altri grandi nomi. Che cosa si prova nel sapere di aver illustrato alcune edizioni di grandi opere letterarie oppure vedere stampate su un giornale le proprie illustrazioni?
A volte capita che un editore commissioni un titolo che fa parte della nostra biblioteca affettiva, quello che spesso ci si è domandati come sarebbe illustrare, facendoci formicolare lo stomaco. Quando capita, è in agguato la “sindrome del capolavoro”, ovvero la tentazione di omaggiarlo come se fosse un rito religioso oppure di dargli la più rivoluzionaria e indimenticabile delle interpretazioni. È l’anticamera del fallimento, di solito. A me è successo varie volte, in alcuni casi cadendo nel trappolone (soprattutto nei primi anni), poi, con l’esperienza e un po’ di freddezza, ragiono che ogni titolo, ogni copertina o articolo, vanno trattati con accuratezza e serietà, per accontentare la nostra visione e quella del committente. La fase che mi intriga di più è proprio la prima, la commissione e l’inizio del progetto, quando posso studiare e ragionare, documentarmi, cercare le referenze. Son di quelle nature a cui, poi, il lavoro quotidiano in sé stufa un po’ e vorrei finisse subito. Quando il libro o l’articolo o la copertina sono pubblicati, mi piace vederle fuori, per l’effetto che fanno. Ma è un momento che già appartiene anche ad altri, inizia a staccarsi da me, ne divento quasi io stesso uno spettatore. Però è una bella sensazione scoprire che sul bus qualcuno sta leggendo un libro che ha la mia copertina o vederla apparire in televisione. Quando questa estate è scomparso Camilleri, un servizio in tv ha ricordato come il suo commissario Montalbano dovesse il nome allo scrittore catalano, Manuel Vàzquez Montalbàn. Così, è passata la copertina di Tatuaggio, nella serie dei tascabili Feltrinelli da me illustrata. È stato un guizzo, ma mi ha solleticato con piacere, così come il messaggio di un mio ex allievo ed ora fumettista, Giovanni Scarduelli, che me l’ha segnalata con la prontezza di un ufficio stampa. L’arte figurativa ha in comune con la letteratura, il voler tentare di raccontare una realtà, proprio quella che si sceglie di rappresentare, tra le tante possibili.
L’arte figurativa ha in comune con la letteratura, il voler tentare di raccontare una realtà, proprio quella che si sceglie di rappresentare, tra le tante possibili. A che cosa s’ispira quando deve illustrare qualcosa?
Ho una formazione umanistica, lavorando poi per tanti anni in una redazione nel doppio ruolo di grafico e art director della rivista e di critico e saggista. Ho sempre avuto poi una passione sfrenata per tutto quanto è scritto e disegnato, dalla letteratura più alta a quella più popolare, dal saggio di filologia greca al manga. È la natura curiosa, onnivora che mi porta ad essere curioso e a far da spugna. Così, quando inizio un lavoro, il primo pensiero è di solito associativo, inizio ad attingere all’immaginario più vario. Una delle fonti di ispirazione più frequenti è il cinema, mi diverte spargere citazioni un po’ ovunque. Poi, le avanguardie storiche, la grafica degli anni ’50, ’60 e ’70. Il fumetto d’autore, la cultura pop. C’è così tanto a cui ispirarsi.
Il rapporto tra parola e immagine: quanto quest’ultima può veicolare un messaggio?
L’immagine viene prima della parola, malgrado l’inizio del vangelo di Giovanni. È il mezzo più immediato, pur essendo “mediato” da una forma, una tecnica, mutevoli e soggette tutte al tempo. Come le lingue, anche alcune immagini risentono dell’epoca che le ha prodotte, sono storicizzabili ma non per questo meno efficaci. Solo, ci si mette di più a decodificarne il senso completo, perché man mano si perdono alcune chiavi. Così Dante o Ezra Pound, Shakespeare o Eliot dicono ai loro contemporanei cose che dopo a noi arrivano parziali, oscure, bisognose di traduzione. Le immagini quando sono potenti e complesse, hanno la stessa forza culturale: i bassorilievi di un portale medievale in una chiesa o un quadro di De Chirico, ci danno informazioni stratificate. Un primo livello è sotto gli occhi di tutti, poiché l’immagine è davvero democratica e accessibile. Ma non tutti colgono le stesse complessità, perché i codici, le chiavi non sono in possesso di tutti allo stesso modo e nello stesso tempo. Lavorando ed apprezzando entrambe, parole e immagini, per me il loro potere è nella forma. La forma è sostanza. Come nel linguaggio, conoscere 100 parole equivale a non sapersi esprimere se non con quelle, limitando molto il raggio della comunicazione. Chi ne conosce 1000, saprà comunicare con chi ne possiede solo 100, ma il contrario non è agevole. Perfino alcune tensioni sociali hanno un’origine comunicativa: non ci si capisce, ci si irrita, si arriva al conflitto. Così è per le immagini: se il mio bagaglio culturale ne comprende poche, la mia comunicazione come illustratore è limitata, ha il fiato corto, regge male il passare del tempo. Più ne possiede la mia mente, più potente è l’immaginazione che genera e la capacità di comunicare in luoghi, modi e tempi diversi.
Che cosa significa essere un artista nel 2019? Quali sono i suoi consigli per un giovane che volesse intraprendere la sua professione?
Non parlo mai di me come “artista”, mi occupo di comunicazione e uso linguaggi che cercano di risolvere problemi di comunicazione. Pintér mi diceva che lui si sentiva un artigiano, chiamato a sistemare cose che altri avrebbero fatto altrettanto bene, forse meglio. Ma diversamente da lui. È questa peculiarità, questo essere “diversi da”, che ci rende interessanti. Al Mimaster Illustrazione, la scuola che da 10 anni dirigo a Milano, raccontiamo molto del mestiere, di com’è fatto, di quel che comporta essere illustratori nel divenire del mercato internazionale. Un artista, mi vien spesso da pensare, è colui che pone problemi alla realtà, non si accontenta di passarci sopra ma sente l’esigenza di attraversarla. L’artista è problematico. Un illustratore ha un’analoga percezione dei problemi, ma tende a risolverli più che a proporne di nuovi. Nei casi più illuminati, le due figure – artista e illustratore – coincidono nella forma e nella sostanza. Così che artisti sono illustratori, fumettisti, animatori, vignettisti, ritrattisti, senza che la forma scelta per la loro espressione sia considerata svilente o meno pregiata di quelle tradizionalmente associate all’arte. A chi inizia adesso un percorso creativo, mi viene da suggerire di essere rigorosi, allegri e non posati, interiori e non cupi, studiosi e curiosi di ogni cosa, pratici e immediatamente risolutivi. L’illustrazione può avere ancora molto da dire in tempi di conclamata imbecillità per cui la libertà del dire ne ignora la responsabilità.
A che cosa sta lavorando Ivan Canu oggi?
Mantengo stabilmente le collaborazioni con La Repubblica e Il Sole 24 Ore con serie di ritratti; con L’Espresso c’è il rapporto speciale con l’art director Stefano Cipolla che mi porta a inventare sempre qualcosa di nuovo, accogliere sfide che mi lancia, divertendoci molto. C’è sempre qualche progetto nuovo a cui penso, un libro o due. È un buon periodo questo per chi si occupa di illustrazione non solo per l’infanzia ma anche adulta, com’è il mio campo preferito. Ci sono storie e personaggi che dovrebbero fare capolino a breve. C’è poi sempre la progettazione del Mimaster, che occupa quasi l’intero anno, con le fiere internazionali a Mosca, Shanghai e Bologna in cui si allestisce l’Illustrators Survival Corner, lo spazio dedicato agli illustratori con workshop, masterclass, portfolio review, mostre. C’è la seconda edizione dell’Illustrated Survival Guide, nata proprio dalla decennale attività didattica del Mimaster e della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, edita da Corraini. C’è il podcast “Il mondo di Tolkien” che scrivo con Benedetta Lelli, ufficio stampa del Mimaster, per la piattaforma Storytel, nato pure questo da adolescenziali frequentazioni del fantasy e poi diventato progetto editoriale dopo aver ospitato al Mimaster gli illustratori Alan Lee e John Howe, icone viventi dell’arte tolkieniana nel mondo. Ci sono poi le commissioni che arrivano dalla mia agenzia, Salzman International, alle quali proprio non riesco a dire di no. Non posso dire di annoiarmi.