Dalla Palestina al Libano. Il grande sogno di avere un posto da chiamare “casa”

a cura di Stefania Errico

Mustapha Atef Dakhloul, membro di una delle tre ONG che operano all’interno del campo profughi di Burj Shemali, ci racconta la realtà di una popolazione che vive da anni con la sensazione di non appartenere al luogo in cui si ritrova ancora oggi ospitata.

Nel sud del Libano, precisamente nella periferia della città di Sour, si trova una casa, costruita nel 1948 e che ospita circa ventiduemila persone. Si chiama Burj Shemali.
Le sue mura sono fatte di blocchi di cemento e filo spinato, le porte sono circondate da carri armati e bandiere.
Non è facile accedervi dall’esterno, non c’è la possibilità di poter uscire ed entrare liberamente, ma se si ha il privilegio di poter varcare quella soglia, si diventa testimoni di un mondo pulsante all’interno di quegli stretti confini. Un mondo che vale la pena di essere conosciuto, fatto di viette striminzite irraggiungibili dal sole, stradine sterrate, ricoperto da odore di terra battuta e caffè al cardamomo.

Campo profughi di Burj al-Shemali (foto di Stefania Errico)

Volti curiosi e rassegnati, nascosti dietro le finestre ombrose, osservano la vita trascorrere e ogni tanto, con stupore, tra le facce conosciute appaiono giovani volontari provenienti da ogni dove. Io ero una di loro, e tra quegli odori e quelle strade ho avuto la possibilità di viverci per mesi, diventando parte di questa grande comunità. Ho partecipato a un progetto di volontariato organizzato dalla onlus italiana Ulaia ARTESUD, in collaborazione con l’associazione locale Al-Houlah, nata proprio all’interno del campo.

Mustapha Atef Dakhloul, responsabile organizzativo e assistente finanziario dell’associazione Al-Houlah, è un giovane ventiquattrenne che ha deciso di dedicare la sua vita al futuro della sua popolazione e al ricordo della sua terra. Mustapha oggi si è offerto di rispondere alle mie curiosità sulla percezione della casa e della terra di origine dal suo punto di vista di abitante di un campo profughi.

Mustapha Atef Dakhloul e Stefania Errico – giorno dell’intervista

Il campo profughi di Burj al-Shemali nasce in un momento storico molto importante per la storia della Palestina. Potresti riassumere brevemente le tappe riguardanti la creazione e lo sviluppo del campo e raccontarci dell’arrivo dei tuoi nonni in Libano?

I palestinesi sono stati espulsi nel 1948 dalla loro terra, durante la guerra civile conosciuta come Nakba. Erano più di 700mila e sono stati obbligati a emigrare. Il campo profughi di Burj Shemali è stato creato nello stesso anno per ospitare la popolazione proveniente da Houlah, Tiberiade e Lubieh, tra cui i miei nonni.
Ci raccontano che prima di diventare un luogo di accoglienza, fosse stato un palmeto per circa 99 anni, che venne bruciato per montare le tende.
Inizialmente, il campo era semplicemente un terreno ricoperto di tendoni, che piano piano ha lasciato posto a case di fango e pietre, intorno agli anni ‘60, poi costruite in lamiera e alla fine in cemento. A quel punto abbiamo capito che la speranza di tornare a casa si stava affievolendo.
Fino al 1970, le abitazioni non avevano bagni, né acqua corrente. C’era un rubinetto d’acqua comune in ogni quartiere del campo, così le donne riempivano le taniche d’acqua trasportandole sulla testa fino a casa.
Nel giugno 1982, il campo profughi è stato bombardato per cinque ore, 103 persone sono morte e i nostri genitori e nonni hanno dovuto ricostruire le loro case. Il campo in quel momento è diventato tutto in cemento, trasformandosi in una vera e propria città delimitata da un recinto.

Voi giovani palestinesi non avete vissuto il trauma della guerra e il periodo dell’esodo. La forza con cui desiderate tornare nella vostra patria vi è stata trasmessa dai vostri nonni e genitori. Qual è l’idea di patria per voi? Con quali insegnamenti e ricordi siete stati cresciuti?

La “patria” non è solo un’idea astratta, per lo meno per me.
La patria è il tuo senso di appartenenza a un territorio, a delle tradizioni e a degli affetti. Noi questa convinzione l’abbiamo resa un’incarnazione fisica, è diventata una sorta di rifugio e santuario, il posto in cui la popolazione vuole tornare a ogni costo e che si idolatra, l’unico luogo in cui si pensa di poter essere felici ed essere connessi alle proprie origini, motivo per cui alcuni profughi conservano ancora le vecchie chiavi delle loro abitazioni in Palestina, simbolo della loro speranza di poter tornare un giorno e poter trovare tutto come era stato lasciato.
Quando si nasce, si cresce e si diventa adulti in “nessuna patria”, si comincia ad avere una convinzione materiale e tangibile su cosa sia una patria, e la sensazione e la voglia di sentirsi appartenenti a qualcosa è più forte rispetto a chi può dare per scontato il fatto che il suo paese sarà “suo” per sempre.
Il ritorno in patria è il diritto e il sogno di ogni rifugiato palestinese, anche di quelli nati e cresciuti in Libano, e facciamo di tutto per non dimenticare e per non far dimenticare la storia ai nostri bambini.

Manifestazione contro le politiche libanesi riguardanti i rifugiati

Casa è un luogo in cui ci si sente sicuri e liberi. Questa affermazione può essere considerata vera per la vita all’interno di un campo profughi?

Questa affermazione non è assolutamente vera.
Purtroppo, noi viviamo in luoghi non sicuri per molte ragioni. Proprio la sicurezza e la libertà che hai citato sono i due elementi fondamentali che ci mancano: nonostante la gratitudine per avere un posto in cui vivere, essere all’interno di un campo profughi ci fa sentire in carcere e ci fa provare una sensazione di incertezza per il timore di vederci sottrarre il pezzo di terra che ci è stato concesso dallo stato ospitante.
Inoltre, il nostro status di “rifugiati” non ci permette di risollevarci, è un marchio che non ci rende liberi di fare il mestiere che vogliamo o avere una proprietà privata, secondo le leggi nazionali libanesi. Inoltre, all’interno di Burj al-Shemali ci sono tante altre problematiche come la diffusione e l’abuso di droghe, l’analfabetismo, le difficili condizioni economiche e la diffusione di armi incontrollate.

Mentre per quanto riguarda gli spazi e il senso di soffocamento, vorrei evidenziare gli spazi stretti tra le case poiché non riusciamo mai a vedere la luce del sole diretta, la mancanza di luoghi di svago e di divertimento, di giardini e di luoghi culturali e sociali e, quando raramente questi vengono fondati, dobbiamo affrontare la mancanza di fondi per sostenerli.
Vivere qui significa anche vivere nell’umiliazione e nell’emarginazione, in condizioni poco dignitose, vivere in un luogo circondato dall’esercito libanese per motivi di sicurezza.
Non la consideriamo come la nostra casa ma come una cosa temporanea, anche se i nostri nonni, i nostri genitori e noi giovani ci siamo nati, cresciuti, sposati e probabilmente ci resteremo sempre.

Casa dovrebbe essere un posto in cui sentirsi accolti. Cosa significa essere rifugiato in un paese che soffre di una profonda crisi economica e che ha recentemente vissuto un evento drammatico come l’esplosione del porto di Beirut?

È difficile sentirsi benvenuti in un paese che sta già affrontando problemi personali in quanto ciò che si fa in periodi difficili è sempre cercare il responsabile, e noi siamo additati in quanto si ritiene che i rifugiati stiano sfruttando le opportunità lavorative del posto e anche tanto aiuto umanitario dalle organizzazioni internazionali durante una crisi economica in cui la gente del posto non riesce a provvedere alle proprie esigenze di vita basilari.
Non è raro vedere bambini lavorare invece di andare a scuola, ma ogni famiglia cerca di fare il meglio che può per vivere.

A proposito di bambini, casa è il luogo in cui i piccoli costruiscono le loro idee e visioni della realtà. Come pensate che crescano i bambini in un campo profughi?

Il gioco migliora l’immaginazione e le capacità dei bambini. All’interno del nostro campo profughi i bimbi sono privati del diritto di giocare, in quanto non ci sono ampi spazi, e quei pochi che ci sono si sono trasformati da parchi giochi a discariche nel giro di poco tempo. Di conseguenza, i bambini cresceranno senza immaginazione e con abilità nulle.
Banalmente, quando i bambini giocano a calcio nelle vie, causano problemi ai vicini e forti rumori in quanto le case sono molto vicine tra di loro e quindi sono invitati a fare silenzio e a non giocare.

Casa è legata all’idea di famiglia e comunità. Come pensa che siano le relazioni e la privacy all’interno di un luogo piccolo come Burj Shemali?

L’area del campo è piccola e le case, come dicevo prima, sono molto ravvicinate l’una all’altra e non c’è un’organizzazione civile, il che porta a due punti positivi che sono la vicinanza della comunità e l’instaurazione della forza delle relazioni nei paesi della diaspora, ma il punto negativo è che ha impedito alle famiglie all’interno delle case di godersi la privacy.
Ma in fondo è bello essere circondati da persone gentili, vicini o parenti, soprattutto perché condividiamo lo stesso problema di essere lontani dalla nostra vera casa e lottiamo con le stesse problematiche quotidiane come la mancanza di elettricità. La nostra vicinanza ci permette di essere uniti nella tristezza e nei momenti belli.

Campo profughi di Burj al-Shemali (foto di Stefania Errico)

Le case possono essere usate come strumenti per avere il controllo sulle persone.  La minaccia di sottrarre le case alla popolazione può rendere più forte il potere centrale. Pensa che questo sia ciò che è successo a lei? Pensate che sia una strategia specifica o solo una normale conseguenza di ogni conflitto?

Penso che sia una normale conseguenza dei conflitti, ma nella situazione palestinese in particolare, appropriarsi delle nostre case serviva per ampliare il territorio nemico, era utile inserire la loro popolazione nelle nostre abitazioni per iniziare a creare una comunità diversa in quelle zone.
È quello che è successo quando i nostri nonni hanno dovuto lasciare la casa per qualche giorno per proteggersi dalla guerra e dopo, una volta tornati, hanno visto che qualcuno si era impossessato della loro terra.

Le associazioni sono una ventata d’aria fresca nella vostra quotidianità. Puoi parlarci del tuo lavoro e di come “Al-Houlah association” aiuta la popolazione quotidianamente?

Al-Houlah è stata fondata nel 1973, distrutta nei bombardamenti del 1982 e ricostruita nel 1999. Lavoriamo con le differenti fasce della comunità del campo organizzando progetti sociali, culturali e sportivi. La nostra associazione, inoltre, è un punto di incontro per tutta la popolazione, è sempe aperta a chiunque. Abbiamo una biblioteca dove accogliamo i bambini e i giovani, abbiamo un teatro in cui organizziamo concerti o workshop e in cui si tengono le riunioni cittadine, le campagne elettorali all’interno dei campi e anche le celebrazioni dei funerali.

Vorresti aggiungere qualcosa?Sì e grazie per questa opportunità. Quest’anno la nostra biblioteca non avrà più fondi, ed è l’unica biblioteca del nostro campo. È un luogo di gioco per i bambini, di studio per gli studenti, di sollievo per gli anziani, di miglioramento e guida per le donne, di aiuto per chiunque ne abbia bisogno. Stiamo cercando un modo per raccogliere donazioni. Abbiamo molti giovani istruiti che hanno completato gli studi superiori, ma non hanno la possibilità di lavorare a causa delle leggi libanesi che impediscono ai palestinesi di svolgere molte mansioni.
Inoltre, come associazione, accettiamo volontari durante tutti i periodi dell’anno, basta contattare l’associazione via Instagram:

@al_houla_association.

Esprimi un desiderio per il futuro.

Campo profughi di Burj al-Shemali (foto di Stefania Errico)

Desideriamo tornare a casa nostra, vedere la Palestina e quei luoghi meravigliosi osservati solo in fotografia. Vogliamo realizzare i nostri sogni lì, andare nel vero luogo a cui apparteniamo e vivere tra persone che hanno affrontato l’occupazione e che hanno fatto l’impossibile per rimanere attaccati alla propria terra. Vogliamo guardare al futuro con speranza e non con paura!