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di Enrico Molle
Insegnare: verbo transitivo derivante dal latino “insignare”, ovvero «imprimere segni (nella mente)».
Sono Enrico Molle, sono originario di Ugento, un piccolo comune del Salento nel quale attualmente vivo, ho trentadue anni e, oltre a scrivere per Clinamen, nella mia vita, per qualche mese all’anno, insegno. Mi sono laureato in Lettere Moderne presso l’Università del Salento nel marzo del 2017 con il massimo dei voti e, in questi sei lunghi anni, ho imparato quanto il mondo dell’insegnamento sia la cosa più concettualmente simile al Far West.
La mia, sia chiaro, è una storia singolare e mi rendo conto di come possa andare controcorrente rispetto a tante altre, ma sento il dovere di raccontarla per aiutarvi a capire i concetti che voglio esprimere.
Dopo la maturità scientifica ho deciso di intraprendere gli studi umanistici per portare avanti la mia passione per la letteratura e la storia, consapevole che un tale percorso di formazione avrebbe dovuto fare, prima o poi, i conti con il mondo del lavoro e che in un Paese come l’Italia le difficoltà sarebbero state non poche. Finita l’università nel 2017 come sopra accennato, mi si è presentata subito l’occasione di tentare un primo approccio con il mondo dell’insegnamento grazie alla riapertura, nell’estate di quell’anno, delle graduatorie d’istituto per il triennio 2017/2020.
Per chi non lo sapesse i laureati in possesso di un determinato numero di crediti formativi nelle varie discipline, a ogni riapertura delle graduatorie, possono iscriversi in quelle relative alla terza fascia d’istituto (la seconda è destinata a coloro che sono in possesso dell’abilitazione e la prima a coloro inseriti nelle GAE[1]), avendo così la possibilità di insegnare come supplenti nelle scuole selezionate all’interno della provincia scelta. Con la mia laurea è possibile insegnare italiano, storia e geografia negli istituti secondari di primo e secondo grado, comunemente noti come scuole medie e scuole superiori.
All’epoca avevo ventisei anni e pensai bene di fare un po’ di esperienza fuori, cosciente della stagnante situazione dei docenti nel Sud Italia. Così, dopo un po’ di riflessioni, calcoli e consigli, decisi di scegliere Modena come provincia per l’inserimento nelle graduatorie d’istituto.
Arrivato settembre mi armai di speranza e attesi con ansia la mia occasione. Iniziarono ad arrivare alcune e-mail di convocazione: queste solitamente comunicano la disponibilità di una supplenza e rendono esplicito l’elenco dei candidati interessati insieme al termine di scadenza entro il quale è possibile dare una risposta. Tra i candidati, il primo per punteggio ad accettare viene poi contattato per prendere servizio.
Vi chiedo, per solidarietà, di immaginare il mio stato d’animo ogni volta che ricevevo questo tipo di e-mail, alla quale rispondevo dando la mia disponibilità ad accettare la supplenza e passavo spesso dodici o ventiquattro ore ad aspettare una chiamata sperando che nessuno tra gli aspiranti docenti che mi superavano nel punteggio facesse lo stesso, con la consapevolezza che, qualora l’incarico fosse spettato a me, avrei dovuto fare le valigie in fretta e furia e partire quasi seduta stante.
Chi ha dimestichezza con il mondo della scuola sa che tutto ciò rappresenta la norma e che può essere molto d’aiuto avere un parente o un conoscente sul posto che possa ospitarti per qualche giorno, fortuna che io non avevo.
A ottobre di quell’anno però iniziai a capire che forse la strada da percorrere per diventare insegnante, oltre a essere difficile, poteva avere del paradossale. L’occasione di tale riflessione mi fu offerta da una convocazione dove veniva specificata la necessità di presentarsi a distanza di un paio di giorni presso l’istituto nel quale si era resa disponibile la supplenza, senza la possibilità di inviare una delega per chi era più lontano (eventualità che di norma è concessa). Un po’ perplesso e spiazzato, dopo essermi consultato con i miei genitori, decisi di partire e affrontare un viaggio di nove ore per andare a Modena e scoprire se ero proprio io il destinatario di quella supplenza, consolandomi nel pensare che, comunque fosse andata, sarebbe stato un modo per farmi un’idea della città e del posto.
Dopo aver fatto tappa a Roma ed essermi fermato una notte nella capitale, il mattino seguente mi alzai prestissimo e presi un treno per Modena. Raggiunti i pressi della scuola incontrai un ragazzo poco più grande di me che aveva frequentato la mia stessa università, insieme a un esiguo numero di giovani, la maggior parte dei quali venuta da diverse regioni del Sud Italia e che era lì per il mio stesso motivo. Passati alcuni attimi di attesa, fummo invitati a entrare nell’istituto da un collaboratore scolastico che ci condusse al cospetto della dirigente, la quale iniziò a leggere i nomi dei convocati prima di fermarsi una volta raggiunto quello dell’aspirante docente con la posizione più alta in graduatoria tra i presenti: la supplenza spettava a lui, tutti gli altri potevano già tornare a casa. Alla domanda di alcune ragazze siciliane, che volevano una delucidazione sulla necessità di doversi presentare personalmente presso l’istituto anche per chi veniva da molto lontano, la dirigente rispose affermando che c’era il bisogno di avere sentore di quanti erano realmente interessati a ricevere l’incarico e spese bellissime parole nei confronti di noi giovani che avevamo percorso tanti chilometri per presentarci lì quella mattina e dimostrare la nostra voglia di insegnare.
Ammetto che, personalmente, rimasi allibito, non tanto perché forse rispetto agli altri ero mosso da una passione più flebile, nutrendo all’epoca qualche dubbio sulla mia propensione a fare l’insegnante, ma perché di certo nessuno aveva bisogno di fare ore e ore di treno per sentirsi dire quelle cose.
Finito il siparietto andai in stazione e presi il primo treno disponibile per Lecce, archiviando con filosofia quest’esperienza. Uno spiacevole susseguirsi di eventi era tuttavia dietro l’angolo ad attendermi.
Circa un mese dopo, durante un fine settimana a Roma con la mia fidanzata, un sabato mattina, mentre ero ancora nel letto, ricevetti una telefonata. Dall’altra parte della cornetta una voce mi comunicò che si era resa disponibile una supplenza presso una scuola media e mi chiese se ero disponibile ad accettare, per poi prendere servizio il lunedì seguente. Ammetto che in un primo momento andai nel panico, non sapendo cosa rispondere nell’immediato considerato che il giorno dopo sarei dovuto tornare a casa e poi eventualmente ripartire. Quindi, dopo aver spiegato la mia situazione, chiesi al mio interlocutore alcuni minuti per organizzarmi. A quel punto telefonai subito ai miei genitori per avvisarli dell’opportunità che si era presentata e decisi di accettare l’incarico, scegliendo così di andare a Modena senza passare da casa e chiedendo loro il piacere di raggiungermi nei giorni seguenti per portarmi degli indumenti e altre cose che mi sarebbero state necessarie per trasferirmi momentaneamente.
Quando richiamai la scuola, elettrizzato e agitato all’idea di iniziare finalmente a insegnare, la segretaria con cui avevo parlato poco prima mi comunicò che una ragazza che era stata contattata in precedenza, quindi con un punteggio maggiore rispetto al mio, e che, come me, aveva chiesto qualche minuto per organizzarsi, aveva appena accettato la supplenza. Inizialmente pensai di essere stato preso in giro, domandai a questa voce senza volto il motivo per cui non aveva aspettato di ricevere una risposta dall’altra persona prima di contattare me (non c’era alcuna fretta, la supplenza sarebbe iniziata dopo due giorni) e lei si giustificò dicendomi che c’era stato un equivoco, e mi porse le sue scuse. Salutai e riattaccai. Fui invaso dai sensi di colpa per non essere stato impulsivo accettando subito l’incarico e per aver preso qualche minuto utile a organizzarmi. Ci misi una giornata intera sia per metabolizzare il tutto e rendermi conto che l’errore non era stato il mio, sia per capire che è normale per una persona, che da un momento all’altro si ritrova a dover stravolgere ogni piano, aver bisogno di alcuni istanti per ordinare le idee, soprattutto se sono da poco passate le sette di mattina e, per di più, se si è fuori per un viaggio.
Gli ultimi due giorni di vacanza furono rovinati e ci misi un bel po’ a perdonarmi quell’esitazione, quindi continuai a raccontarmi che era tutto normale, che faceva parte della gavetta. Tuttavia l’episodio più controverso mi capitò alcuni mesi più tardi.
Era il febbraio del 2018 quando un lunedì mattina fui contattato da una scuola media situata a Piumazzo, una frazione di Castelfranco Emilia, comune in provincia di Modena. La telefonata mi avvisava che ero risultato destinatario di una supplenza di un paio di mesi e io senza esitare accettai. Mi sarei dovuto presentare in sede dopo due giorni e quindi iniziai a pianificare la mia partenza. Diedi uno sguardo ai biglietti del treno e, mentre preparavo la valigia, iniziai a informarmi su dove poter alloggiare. Dalla scuola mi segnalarono un B&B, ma quando chiamai nessuno mi rispose e poco dopo riuscii a scoprire, grazie ad alcune informazioni reperite su Internet, che la struttura era stata destinata a un’altra attività. Cercai qualcos’altro, ma mi resi conto con grande stupore che questa frazione, anche abbastanza grande considerato che conta oltre cinquemila abitanti, di B&B all’epoca ne aveva solo un altro. Quando chiamai per prenotare una camera mi risposero che era tutto pieno per almeno un’altra settimana. Feci fatica a crederci e, dopo aver spiegato la mia situazione, implorai il responsabile di trovarmi una sistemazione arrangiata per i primi giorni, ma non ci fu niente da fare.
Iniziarono a passare le ore e io chiamai ogni numero di ogni annuncio di casa in affitto a Piumazzo e nel vicino comune ma, essendo tutti appartamenti destinati a famiglie, i proprietari pretendevano come requisito quello di avere un contratto lavorativo di tre anni. Chiaramente non era il mio caso.
Quel giorno non pranzai nel tentativo estremo di cercare un alloggio. Provai a fare alcune ricerche su Modena ma, non avendo la possibilità di portare con me una macchina, mi resi subito conto che affidarsi ai mezzi pubblici per raggiungere la scuola ogni giorno era una cosa poco fattibile.
A distanza di ormai cinque anni non ricordo con precisione quante ore passai nel tentativo di trovare una soluzione, ma ricordo perfettamente il crescere dello sconforto minuto per minuto da quando, dopo aver ricevuto la telefonata, cominciai a capacitarmi che nemmeno quella volta ce l’avrei fatta. Mi resi conto che prendere tutto e partire per catapultarsi in una realtà differente da un giorno all’altro e allo stesso tempo essere pronti a entrare in una classe e insegnare non era poi così semplice. Un aspirante docente non dovrebbe meritare di essere messo nelle condizioni di dover rinunciare a insegnare e un alunno non dovrebbe meritare un docente che, a causa di mille intoppi, rischia di non svolgere bene il suo lavoro.
Quando si fece sera, gettai la spugna. Non avevo un posto in cui andare a dormire, quindi non ero nelle condizioni di iniziare finalmente la mia carriera.
La mattina dopo, appena la segreteria scolastica aprì, chiamai per avvisare che ero costretto a rifiutare la supplenza per non aver trovato un posto dove alloggiare. L’uomo al telefono parve sconfortato quanto me, quasi a capire le mie difficoltà.
In cuor mio, il capitolo supplenze a Modena si chiuse quel giorno, senza nemmeno essere mai iniziato davvero. Lo sconforto mi portò a pensare che non ero disposto a subire altre situazioni simili, non faceva parte di me. Quando dopo un paio di giorni il proprietario di quell’unico B&B di Piumazzo mi contattò per dirmi che si era liberata una camera, la supplenza era ormai andata a qualcun altro e l’intera vicenda prese i contorni di una beffa.
Durante quell’anno scolastico non si presentarono più possibilità concrete di ricevere un incarico. In quello successivo, ovvero quello del 2018/2019, dovetti affrontare alcune difficoltà personali che mi portarono a mettere da parte l’insegnamento nonostante alcune opportunità di ricevere degli incarichi e, successivamente, nel 2019/2020, a causa del Covid-19, tutto fu bloccato.
Terminato questo triennio, le graduatorie si riaprirono diventando biennali per un periodo di tempo che sarebbe andato dal 2020 al 2022 (a ciò si arrivò non senza difficoltà e polemiche, visto che durante i mesi più gravi della pandemia si pensò persino di rimandarne la riapertura). Quindi, nell’estate del 2020, archiviata ormai l’idea di andare fuori e convinto di voler rimanere nella mia terra alla quale, nei precedenti tre anni pieni di difficoltà, mi ero legato in maniera viscerale, decisi di cambiare provincia di inserimento e scegliere Lecce.
Chiaramente non mi aspettavo nulla, ero consapevole che lo scorrimento delle graduatorie nel mio territorio sarebbe stato molto più lento rispetto ad altri, tuttavia una flebile speranza mi convinse a fare questa scelta.
A questo punto stava per iniziare per me uno dei periodi più belli della mia vita. Quello che accadde durante questo biennio scolastico mi sembrò, per lunghi tratti, quasi un riscatto per quanto vissuto negli anni precedenti.
A inizio febbraio 2021, dopo alcune convocazioni risolte in un nulla di fatto, una mattina mi arrivò una telefonata inaspettata durante la quale mi venne chiesto se ero disponibile ad accettare una supplenza resasi disponibile presso la scuola media di Ugento, la stessa che io avevo frequentato molti anni prima. Provai una gioia immensa, non avrei mai immaginato di poter iniziare la mia carriera da professore nel posto dove, molti anni prima, ero stato un alunno: una fatto del genere non lo avevo ipotizzato nemmeno nei miei sogni più felici.
Accettai, mi sistemai in fretta e in furia e, arrivato in quel posto a me così familiare, ebbe inizio la mia esperienza nel mondo della scuola. L’impatto fu forte, a ventinove anni mi ritrovai a entrare per la prima volta in una classe e dovetti mettermi in gioco per gestire un gran numero di alunni: una cosa del genere non te la insegna nessuno, la devi scoprire da solo. Fortunatamente, per me la cosa non risultò molto difficile. Negli anni avevo fatto parecchie ripetizioni nel pomeriggio, quindi avevo dimestichezza con i programmi scolastici e sapevo qualcosa su come approcciarmi con i più giovani. Così, dopo essere entrato in classe, una terza media che sembrava la più vivace del mondo piombò, nel giro di pochi minuti, nel silenzio più totale, mentre io portavo avanti un discorso sull’evoluzione delle mafie che, partendo dal contrabbando, erano arrivate a gestire il traffico di droga. La mia prima ora in una classe era un’ora di approfondimento e quindi, quando un ragazzo mi chiese quasi per scherzo di parlare dei narcotrafficanti, io feci la mia prima e appassionata lezione utilizzando le conoscenze raccolte negli anni grazie a delle letture e ad alcuni film e documentari.
Quella supplenza, che inizialmente doveva essere solo di due settimane, si prolungò fino al termine delle attività didattiche e mi regalò anche l’emozione di vivere gli esami di terza media dal lato opposto rispetto a quello che, sedici anni prima, avevo vissuto da studente.
Gli oltre cinque mesi passati a insegnare in quella che era stata la mia scuola mi hanno arricchito di emozioni che per me non hanno un valore quantificabile: basti solo pensare a quale può essere la sensazione di ritrovare come colleghi gli stessi professori che sono stati tuoi insegnanti. Si tratta di un’esperienza che, qualunque strada prenderà il mio futuro, porterò per sempre nel cuore come qualcosa di bellissimo e intoccabile.
Nelle ultime settimane di scuola però, un alone di nostalgia iniziò a presentarsi al pensiero che quella supplenza stava per volgere al termine e che, finito quell’anno scolastico e iniziato quello nuovo, tutto sarebbe ripartito e non avrei avuto nessuna certezza di ritornare in una scuola, soprattutto non in quella. Vedete, è essenziale capire che l’insegnante di italiano ha, in linea di massima, un ruolo diverso rispetto agli altri, in primis per il fatto che è la figura che passa più ore in una classe, poi perché la coscienza che ognuno di noi forma negli anni dipende moltissimo dal modo in cui siamo portati a intendere e interpretare le storie che ci vengono raccontate, a prescindere che si tratti di una fiaba o della guerra dei cent’anni e, in questo, il professore o la professoressa di italiano ha un ruolo cruciale. All’interno di questa consapevolezza si cela il costo emotivo che ogni supplente, a maggior ragione un supplente di italiano, deve pagare alla fine di ogni incarico: dopo aver condiviso moltissime ore piene di insegnamenti, rimproveri, momenti di crescita e persino momenti di sconforto, le persone si legano e quel legame, anche a distanza di anni, lascia delle sensazioni che è difficile dimenticare. Una dolce nostalgia è quella che provo io e che prova ogni supplente quando ripensa ai suoi ex alunni, una nostalgia anomala data dall’aver fatto parte del percorso di crescita di qualcuno, senza però aver avuto la possibilità di vederlo compiuto.
In questo arcobaleno di emozioni, l’amarezza che scaturisce dal sapere di trovarsi in quella posizione ai danni di un docente che, probabilmente, sta affrontando delle problematiche si scontra con il desiderio irrealizzabile di mantenere quel posto per sempre.
Chiunque intraprenda la strada dell’insegnamento è consapevole di tutto questo, sa che è la gavetta da fare, sa che è l’esperienza che bisogna maturare per arrivare al tanto agognato “ruolo”, ma ciò non toglie che un tale processo sia intriso di un’emblematica ingiustizia di fondo, un’ingiustizia che ricade sui docenti e anche, fortemente, sugli alunni.
Nel seguente anno scolastico (2021/2022), ho avuto la possibilità di lavorare da febbraio a maggio in una scuola media di Nardò, e tutte le parole spese per descrivere l’esperienza vissuta a Ugento valgono anche in questo caso. I mesi passati a insegnare nella scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Polo 2 “Renata Fonte” sono stati un serbatoio di situazioni che mi hanno fatto crescere moltissimo come persona e come insegnante. L’accoglienza strepitosa dei docenti con più esperienza e l’affetto degli alunni di ben cinque classi sono sensazioni ancora vive e percepibili che difficilmente lascerò raffreddare. Di sicuro non lascerò mai sbiadire il ricordo del pianto di una ragazzina di prima media, una ragazzina vivace, dal carattere a tratti scontroso e oppositivo, che, dopo aver scoperto che un giorno come un altro era il mio ultimo in quella scuola, non ha saputo reggere l’emozione e ha manifestato, con le sue lacrime, il suo dissenso e il suo dispiacere. Quella ragazzina, che inizialmente non portava mai il materiale, non comunicava e non era minimamente interessata alla storia e alla geografia, alla fine era riuscita ad aprirsi, a interessarsi alle mie lezioni a tal punto da partecipare e intervenire assiduamente e persino farsi interrogare come volontaria svariate volte. Avevo colto, nella sua rabbia, un richiamo d’aiuto ed ero riuscito a rispondere al suo appello. È la prima volta che racconto pubblicamente questo episodio e sinceramente ne vado fiero perché sono sicuro che questa sia la sede adatta, al contrario di quello che pensano altri docenti che tendono a raccontare con una certa frequenza episodi analoghi sui social network. Sono sempre stato dell’idea, sin da quando ero ancora uno studente, che ognuno di noi, prima del ruolo che è chiamato a ricoprire nella società, è una persona e per questo va rispettata ed è necessario avere una sensibilità tale da capire cosa è giusto o meno per noi e per gli altri.
Purtroppo, a distanza di un anno da quest’ultima esperienza come docente, la situazione sembra essere tornata poco rosea: con la riapertura delle graduatorie per il biennio 2022/2024 le possibilità di ricevere un incarico hanno fatto un brusco salto indietro, soprattutto qui nel Salento. Ciò, in parte, è da ricondurre all’anomala situazione vissuta durante la pandemia: il dilagare del virus aveva portato la necessità di dotare le scuole, nel biennio 2020/2022, del cosiddetto “organico covid”, che prevedeva l’impiego aggiuntivo di personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliare (il personale ATA) durante l’anno scolastico al fine di consentire l’avvio e lo svolgimento dell’anno scolastico in presenza. Con l’allentarsi dell’emergenza (cosa di cui, sia ben chiaro, siamo tutti felici), questo organico non è stato confermato, quindi automaticamente si è verificato un impiego di docenti molto inferiore rispetto ai due anni precedenti. Ciò ha portato molti supplenti che avevano lavorato con una certa continuità a rimanere, almeno fino a oggi, a casa senza ricevere nessun incarico, andando a inceppare quel percorso che per molti, come me, sembrava finalmente essersi sbloccato, considerato anche il punteggio maturato con i mesi di servizio.
Dunque, oggi, entrare a far parte del mondo della scuola è forse tra le cose più difficili che possono esserci in Italia (e ce ne sono tante). Al di là degli imprevisti che si possono incontrare e che fanno parte del percorso, ci sono alcuni dati di fatto che dimostrano la complessità della carriera di un docente.
Innanzitutto, i concorsi sono ormai una chimera da anni, non tanto per la loro difficoltà, che, per carità, ha un suo perché visto che ci sono in palio posti di lavoro fissi e finalizzati a immettere nel circuito dell’’insegnamento gente qualificata, quanto per l’evidente inadeguatezza del metodo di giudizio utilizzato. Da anni la scuola è portata avanti da supplenti che ci mettono cuore e passione e che hanno imparato sulla loro pelle cosa vuol dire guidare i giovani nello studio e nella crescita personale, dimostrando di padroneggiare, oltre alla conoscenza degli argomenti trattati, tutta una serie di comportamenti fondamentali per l’apprendimento degli alunni. Ciononostante, nella maggior parte dei casi, i concorsi sono basati quasi esclusivamente su una serie di prove a carattere nozionistico.
Inoltre è evidente che c’è molta più richiesta di insegnanti nel Nord Italia e questo non è dato dalla presenza di un maggior numero di scuole: la provincia di Lecce, ad esempio, conta molte più scuole rispetto a quella di Modena, tuttavia a parità di punteggio si ha una maggiore possibilità di ricevere un incarico a Modena invece che Lecce. Ciò dipende molto probabilmente dalla diversa offerta di alternative di carriera poiché, come è evidente, in alcune provincie del Nord Italia si hanno più sbocchi lavorativi e quindi molti neo laureati, invece di intraprendere un percorso difficile e con poche garanzie, preferiscono intraprendere altre strade. Al contrario, nel Sud Italia, vista la difficoltà che si riscontra nella ricerca di un lavoro, un grosso numero di laureati ha tentato negli anni di percorrere la strada dell’insegnamento saturando i posti a disposizione e costringendo chi è arrivato dopo a dover tentare la stessa strada altrove.
Un altro problema è rappresentato dal fatto che, attualmente, i percorsi per l’abilitazione dei docenti della scuola secondaria, essenziale ponte di collegamento tra l’università e il mondo dell’insegnamento, sono fermi dal 2015. Dopo alcuni anni dalla sospensione della SSIS (Scuola di Specializzazione dell’Insegnamento Secondario), fu introdotto il TFA (Tirocinio Formativo Attivo), che permetteva a coloro che erano in possesso di una laurea e dei requisiti per insegnare di abilitarsi e quindi di entrare in possesso di un titolo che, oltre alla formazione, offriva la possibilità di fare un grosso passo in avanti nella carriera scolastica. Tuttavia, dopo il secondo ciclo risalente appunto al 2014/2015, il TFA continua a esistere esclusivamente per l’abilitazione degli insegnanti di sostegno, di cui pare esserci un grande bisogno. Questo ha portato migliaia di aspiranti docenti di altre classi di concorso (in parole spicciole coloro che potrebbero insegnare altre materie), che hanno la possibilità di abilitarsi solo dopo tre annualità di servizio (cosa non semplice per la maggior parte degli aspiranti), a ripiegare sul TFA sostegno principalmente per immettersi in maniera più diretta nel mondo della scuola e accelerare quindi il percorso verso un posto di ruolo. È lecito, a questo punto, porsi più di un dubbio su un sistema di reclutamento già macchinoso di per sé che porta a tentare la strada dell’insegnante di sostegno, ruolo delicato e complesso, più per una necessità del posto di lavoro che per una vocazione.
Da quando, ormai sei anni fa, mi sono laureato ho assistito al continuo stravolgimento della normativa in materia di reclutamento docenti. L’avvicendarsi di governi sempre diversi, che spesso non finiscono il mandato, e di altrettanti ministri, crea una continua confusione nel tentativo perenne di aggiustare il tiro su tutte le questioni spinose riguardanti la scuola.
In ordine, dal 2017 a oggi, ho preso i 24 CFU necessari per partecipare al fantomatico FIT (Formazione Iniziale e Tirocinio), un concorso seguito da un percorso formativo di cui si è persa ogni traccia, nonostante la grande mole di manuali stampati e venduti; ho visto un ministro bandire un concorso ordinario in pieno lockdown nell’aprile 2020 e ho visto tale concorso essere rimandato e modificato di sana pianta prima di essere svolto nella primavera del 2022 con delle modalità che hanno rasentato la farsa se si considera l’altissima percentuale di bocciati, lasciando a tutti la sensazione di essere stato portato a termine solo per il fatto di essere stato già bandito e non per un reale interesse di arruolare docenti. Ho visto migliaia di persone affannarsi per prendere svariate certificazioni nella speranza di scalare le graduatorie e per entrare in possesso dei famosi 24 CFU, generando un giro economico non indifferente, e poi ho visto questi 24 CFU perdere di valore ed essere tirati in ballo, di volta in volta, come requisiti per iscriversi alle graduatorie o ai concorsi, fino ad arrivare a essere un grande punto interrogativo nel nuovo sistema di reclutamento abbozzato lo scorso anno, talmente poco chiaro che risulta difficile persino provare a spiegarne i meccanismi e di cui, oltretutto, si è smesso di parlare da un po’.
Insomma, la storia è sempre la stessa e sembra ripetersi, o forse, sembra peggiorare, perché con il generale e repentino avanzamento tecnologico e con tutte le possibilità e i rischi che ne possono scaturire, il mondo della scuola ha un forte bisogno di rinnovarsi, eppure non riesce a stare al passo con i tempi, mentre si incarta su una lunga serie di forzature legislative.
In uno scenario del genere, per me, come per tanti, diventa difficile progettare una carriera, progettare un futuro, perché scegliendo di intraprendere la strada dell’insegnamento si devono fare subito i conti con la totale mancanza di certezze che questo percorso si porta dietro. Non a caso si parla di precariato, perché non c’è niente di più precario della carriera scolastica.
Oltretutto, mentre gli anni passano, come suppongo vi sarete chiesti leggendo l’articolo, le persone che intraprendono questa strada, come si mantengono, visto che lavorare qualche mese chiaramente non basta? La risposta è che ci si arrangia come si può, tentando altre strade, non sempre migliori, soprattutto nel Meridione. Nel frattempo la vita scorre, si fa fatica a pianificare un progetto di vita, si fa fatica a pianificare una propria indipendenza, si fa fatica persino a pianificare una quotidianità perché, da un momento all’altro, una mattina il telefono potrebbe squillare e devi essere pronto ad andare in classe e a insegnare, magari anche solo per qualche giorno.
Come ho specificato all’inizio, la mia è una storia singolare, per ora è la storia di uno dei tanti che non ce la sta facendo, che si sente tradito da un sistema che non funziona e che, complice l’avvicendarsi di alcuni eventi negativi, ha perso un po’ la speranza. Ritengo tuttavia doveroso raccontare che ci sono tante storie differenti e migliori della mia, i cui protagonisti sono riusciti a diventare insegnanti di ruolo da giovanissimi, che sono riusciti a fare le scelte giuste al momento giusto e che ormai fanno parte del sistema scolastico in maniera perenne e costante. Ho amici e amiche che insegnano da anni, che hanno fatto tanti sacrifici, ma che ce l’hanno fatta. Non posso assolutamente invidiare il loro successo, al contrario mi ritrovo a elogiare con grande ammirazione la loro caparbietà: con ogni probabilità loro sono sempre stati mossi da una grande vocazione, una vocazione che a qualcuno come me ogni tanto pare venire meno. Non si deve però dimenticare d’altro canto che per uno che ce la fa, altri mille non ci riescono e, nel caso della carriera scolastica, queste parole dell’adorato Gianni Morandi suonano dannatamente contestuali.
Recentemente, durante una convocazione in un istituto superiore della mia provincia, per la quale era richiesto presentarsi di persona in sede, la dirigente, proclamandosi dispiaciuta per tutti coloro alla quale non era andata la supplenza, ha ribadito con ardore l’importanza dell’humanitas, schierandosi contro i tecnocrati. È stata una cosa intensa, una cosa che ha risvegliato in me una certa speranza. Di fronte alla dirigente, però, ho visto i volti sconsolati di persone stanche e disilluse. Tra questi c’era anche il volto di una madre di due bambini che, dopo aver lavorato con costanza nel biennio precedente, quest’anno ha accumulato solo due giorni di servizio. Questo ha spento sul nascere quella speranza.
In quell’istante mi sono interrogato sul senso di percorrere una strada così irrazionale e soprattutto non lineare, piena di discese e salite improvvise, di partenze e arresti, come una vera montagna russa.
Sono sei anni che convivo con queste sensazioni e non c’è giorno che passi senza che io mi ponga la stessa domanda, senza che io mi chieda se ne valga veramente la pena, non riuscendo ancora a darmi una risposta, poiché se penso a quella ragazzina che piange vorrei dirmi di sì, ma se penso alla madre di famiglia che dopo aver conseguito una laurea e aver accumulato anni di servizio fa ancora molta fatica a lavorare, mi dico assolutamente no.
Durante questi sei anni mi sono accusato e giustificato così tante volte da non riuscire più a capire che strada sto percorrendo. Non posso negare che spesso preferirei non affannarmi così tanto a causa di un sistema che evidentemente non funziona e che mi costringe, per rimanere nella terra in cui sono nato e amo vivere, a lavorare saltuariamente, senza avere certezza di nulla.
In tutto questo marasma, rischia di scivolare in secondo piano la cosa più importante, ovvero l’insegnamento, quell’imprimere segni nella mente, con cui gli alunni di oggi devono fare i conti. Non tutti gli insegnanti riescono a essere dei bravi insegnanti se non sono messi nelle condizioni di farlo e, purtroppo, non tutti diventano insegnanti per vocazione. Insegnare è una cosa difficile, delicata, che richiede pazienza e impegno, che richiede una grande dose di sensibilità per cercare di imprimere nella mente dei ragazzi quei segni che li faranno diventare persone migliori. Il sistema scolastico italiano non funziona bene ed è pieno di crepe e, personalmente, credo che prima o poi imploderà con conseguenze catastrofiche.
In uno scenario del genere, per un trentaduenne non più tanto giovane come me, è difficile avere la lucidità di scegliere quale sia la cosa migliore da fare tra il mollare tutto e voltare definitivamente pagina o continuare a tentare la carriera da insegnante, perché in definitiva non c’è una cosa migliore da fare. A volte si può solo stare fermi attendendo che la marea muti e, nel frattempo, per citare il titolo di un’opera della scrittrice statunitense Dorothy Parker, «tanto vale vivere», senza stare a cercare una risposta a tutto, tanto la nostra generazione, si sa, è destinata all’eterna ricerca di un’identità inafferrabile.
[1] Graduatorie a esaurimento che hanno come finalità ultima l’assunzione a tempo indeterminato, nelle quali è stato possibile iscriversi fino al all’anno scolastico 2007/2008 e, a determinate condizioni, anche negli anni scolastici 2008/2009, 2009/2010, 2010/2011.