di Pierluigi Finolezzi
In Clinamen-periodico di cultura umanistica – n. 2, pagg. 12-14
Le vicende biografiche di Apuleio, autore latino del II secolo d.C., sembrano in parte coincidere con le avventure di Lucio, protagonista del suo romanzo le Metamorfosi.
Nell’economia del racconto, la curiositas costituisce una sorta di deus ex machina che orchestra le peripezie di Lucio sin dalla prima pagina, destreggiando e ingarbugliando il personaggio in una trama di misfatti, incantesimi, inganni, potremo anzi dire nella complessità del mondo. È proprio il desiderio di superare i limiti del possibile a provocare erroneamente una metamorfosi nella fisionomia di Lucio che dopo esser ricorso ad un unguento magico si ritrova trasformato in un quadrupede. Le vicende di Lucio-asino occupano il cuore della narrazione ed è solo nel libro XI che il complesso nodo dell’intreccio viene sciolto: è qui che Apuleio sfoggia la sua originalità e tutta la sua conoscenza, è qui che autore e protagonista si sovrappongono rendendo le Metamorfosi un romanzo autobiografico, è qui che la trama può essere risolta e può giungere alla sua conclusione. Il tutto è possibile grazie ad un intervento divino, l’unico che possa distogliere gli uomini dalla brama della Fortunae caecitas e riportarli tra le braccia della Fortuna videns. Apuleio trova un aiuto nella dea Iside di cui molto probabilmente era un adepto, se si considerano la minuziosa e dettagliata conoscenza dei rituali mostrata dall’autore.
Il culto di Iside è antichissimo e risale all’incirca all’epoca della V dinastia faraonica (III millennio a.C.) e il nome della dea inizia a comparire frequentemente nel contemporaneo Testo delle Piramidi che ne riporta anche il mito. Come mai quindi Apuleio decide di ricorrere ad una religione antica più di tremila anni per risolvere la sua storia? Il II secolo d.C. è l’epoca degli Antonini nella quale l’Impero Romano raggiunge l’apogeo e la pax romana garantisce una stabilità politica che si manifesta anche nella tolleranza religiosa. I culti egiziani non perirono con il declino della civiltà faraonica, ma anzi uscirono rafforzati e con un nuovo volto dalla politica sincretica dei Tolomei. Furono i traffici commerciali e il consolidarsi dei legami tra Roma e l’Egitto tolemaico a consentire a Iside, Serapide e Arpocrate di varcare il delta del Nilo e ad andare alla conquista del bacino del Mediterraneo. A Roma, stando allo stesso Apuleio (XI, 30) Iside giunse nei Sullae temporibus, ma la sua venerazione dovette affrontare periodi alterni: bandita dagli optimates fu tollerata da Cesare, relegata oltre il pomerio da Augusto e dagli imperatori in linea con la sua idea di principato trovò terreno fertile sotto Caligola, Nerone, la dinastia flavia e Adriano. Negli anni di Apuleio, il Campo Marzio era da ormai tre secoli il quartiere alessandrino di Roma e l’Isismo era una delle religioni più professate nel mondo romano. Alla luce di queste considerazioni non stupisce che Apuleio possa esser stato, come egli stesso ammette nel romanzo, un membro del collegio dei pastofori o abbia scelto una dea egizia antichissima come salvatrice del suo Lucio.
Tornando all’epilogo delle Metamorfosi, Iside si manifesta sempre attraverso delle apparizioni che rendono la dea al tempo stesso una visione onirica ma anche un’entità definita in tutta la sua perfezione, grazie alla grande abilità descrittiva dell’autore (XI, 3-4). Il libro X si chiude con Lucio-asino che, fuggito dal caotico mondo delle peripezie, si arena sulla riva di una spiaggia in cerca di riposo. Il protagonista dichiara di essersi abbandonato in un dolce sonno (et vespernae me quieti traditum dulcis somnus oppresserat), lo stesso dal quale si sveglia di soprassalto agli inizi del XI libro a causa del bagliore del disco lunare sorto dalle onde del mare. Da questo momento, Iside comincia a palesarsi costantemente negli occhi di Lucio sia prima sia dopo aver riconquistato la fisionomia umana. È un continuo dialogare tra l’umano e il divino che si manifesta nell’inconscio nel momento meno opportuno: la dea è vicina agli uomini negli attimi in cui sono più vulnerabili, penetra nel loro animo e li stimola ad un messaggio di salvezza, consapevole che ogni uomo cerca il meglio per il proprio futuro. Il sonno, però, vince ancora Lucio e lo splendore della luna non basta a tenerlo sveglio, Iside capisce che il suo nunzio non è sufficiente, deve presentarsi lei stessa: la dea entra nella mente dell’uomo, Iside si fa sogno. Nel ricordare quegli istanti Apuleio utilizza un’espressione (Eius mirandam speciem ad vos etiam referre conitar) attorno alla quale sviluppa una bellissima descrizione e dal quale traspare tutta la sua emozione per quello che ha vissuto. La dea dialoga con l’uomo (XI, 5-6) non lo combatte ma lo conforta (mitte iam fletus et lamentationes omitte. Depelle maerorem. Iam tibi providentia mea illucescit dies salutaris), esaudisce le sue preghiere (tuis commota, Luci, precibus) in cambio di poche semplici azioni (mihi reliqua vitae tuae), è pronta a spianarli la strada pur di vederlo felice e per aiutarlo “indica in sogno ciò che deve fare” (praecipio facienda), un’azione che compie sia con Lucio sia con il sacerdote che all’alba presenzierà il Navigium Isidis. L’asino si desta dal sonno immediatamente, è spaventato, pieno di paura, inondato di sudore ma ebbro di speranza: forse può riconquistare il suo essere uomo (nec mora cum somno protinus absolutus pavore et gaudio ac dein sudore nimio permixtus excurgo). Paura e speranza, le stesse sensazioni che ognuno di noi prova quando sta per compiere un passo dal quale dipende l’esito della propria esistenza, un passo difficile, ma che tuttavia deve essere fatto. Tutto si compie così come prescritto dalla dea: davanti a Lucio-asino sfila la processione isiaca e anche qui Apuleio non lascia nulla al caso, è un crogiuolo di uomini e donne senza distinzione di età e di casta, perfettamente descritti così come li vede il protagonista. Lucio è ancora un animale, ma nessuno lo teme neppure quando sembra puntare sul corteo e dirigersi dritto verso il sommo sacerdote. Ecco la corona di rose! È un tripudio di sensazioni (trepidans; assiduo pulsu micanti corde), l’asino divora la ghirlanda e il miracolo si compie: Lucio è ritornato ad essere Lucio, ma con un volto completamente nuovo. Tutti sono estasiati dal prodigio e ovunque traspare stupore, solo il sacerdote conscio di ciò che è accaduto prende la parola e inizia il protagonista ai misteri della “Fortuna che tutto vede”. Il giovane di Madaura è ormai un tutt’uno con la Grande Maga, le appartiene e per via del grande beneficio che ha ottenuto non le sa togliere gli occhi da dosso: la vede, la sente, la sogna (nec fuit nox vel quies aliqua visu deae monituque ieiuna, sed crebris imperiis sacris suis me, iam dudum destinatum nunc saltem censebat initiari). L’estasi prodotta dalla rivelazione ha condotto Lucio in una realtà onirica da cui non può più trascendere. Si susseguono una serie di sogni: un sacerdote isiaco predice il ritorno di un servo di nome Candido e il giorno seguente gli amici di un tempo riportano a Lucio il suo candido cavallo (XI, 20); la dea in persona annuncia il giorno della prima iniziazione ufficiale (22); il protagonista racconta la sua iniziazione come se avesse compiuto un viaggio nell’inconscio (23); Iside ordina di abbandonare il luogo della conversione e di ritornare in patria (24), poi invita a partire per Roma, stimolando una seconda iniziazione (26), infine esorta a conoscere dopo i suoi misteri anche quelli di Osiride che avrebbero concesso al protagonista di apprendere sino alla più intima essenza i misteri egizi. Ancora una volta Lucio sogna. Nella sua immaginazione compare un uomo vestito di lino bianco e un po’ claudicante che gli porge doni e li preannuncia un grande banchetto. Il mattino seguente l’uomo del sogno diventa un uomo in carne ed ossa, si tratta di Asinio Marcello, il sacerdote isiaco di Roma che avrebbe dovuto portare a termine l’iniziazione del giovane protagonista. Ma la dea non è sazia, chiede di più al suo adepto, vuole che tutti i misteri siano conosciuti dal suo amato “figlio” per garantirgli dopo tante peripezie giorni degni delle sue sofferenze. Questa volta è direttamente Osiride a portare a compimento il percorso catartico di Lucio: la salvezza è finalmente raggiunta, il giovane numida può mostrare a tutti la sua fede senza vergogna, conservando nel profondo del suo cuore i segreti dei misteri, così come richiedeva la più alta carica sacerdotale dei decurioni quinquennali.
L’Isismo mostra due caratteristiche principali nel suo approcciarsi con gli adepti: la centralità della dimensione onirica nella rivelazione del culto e l’obiettivo soteriologico che affascina gli uomini di ogni strato sociale. La vita beata nell’aldilà, promessa da Iside e dalle altre divinità orientali, non fa distinzioni di nascita, tutti possono essere allontanati dall’avidità, dalle malelingue, dalla crudeltà dell’essere umano e godere di una gioia eterna nello spazio che ogni uomo può conquistarsi dopo la morte. Questi elementi della religione egizia non sono espedienti forgiati nella mente di Apuleio, ma senza dubbio appartengono all’immaginario collettivo che si venne a creare attorno a questo antichissimo culto nilotico in un tempo antecedente al II secolo, basti pensare anche al mito di Ifide e Iante presente nelle Metamorfosi di Ovidio (IX, 666-797). La cretese Teletusa, incinta e condannata dal marito Ligdo a vedersi ucciso il nascituro qualora fosse stato una femmina, viene soccorsa da Iside cum medio noctis spatio sub imagine somni. Anche qui la dea egizia penetra attraverso il sogno nella mente di un essere umano debole alla quale la Fortuna ha voltato lo sguardo, senza badare alla sua estrazione sociale e rivolgendo delle parole di conforto (Dea sum auxiliaris opemque exorata fero) che incitano la “prescelta” a eludere gli ordini imposti dallo sposo. È con l’aiuto della Grande Maga che Teletusa riesce a mettere al mondo una femmina, Ifide, e a farla crescere come un maschio educandola nelle arti tipiche dei ragazzi. Ma a tredici anni, Ligdo decide di far sposare Ifide con la ragazza più bella di Creta, Iante. Le due ragazze si amano e sono ansiose di possedersi reciprocamente, ma inconsapevolmente non si rendono conto di essere destinate a diventare entrambe spose. Ifide si tormenta per amore, impreca contro la natura e la sua vita senza speranza. Lo stato d’animo della figlia si riversa in quello della madre che, memore della protezione isiaca, formula la sua preghiera alla dea. Iside non si fa attendere perché non dimentica mai i suoi devoti, compie la sua epifania e come ha fatto con Lucio esegue il suo incantesimo benevolo trasformando Ifide da una logorata fanciulla in un vigoroso giovinetto che può finalmente convogliare a nozze con la bella Iante. A millenni di distanza dal messaggio rivelato dell’Isismo, se evitiamo di leggere questa religione in chiave unicamente soteriologica e ci scostiamo da riflessioni di natura teologica, possiamo giungere alla conclusione che Iside ci ha resi eredi di un grande insegnamento di cui ognuno può fare ancora tesoro, rendendosi conto inconsapevolmente della sua veridicità: è sempre da un sogno che l’uomo inizia la sua catarsi interiore e comincia a sconvolgere la propria vita!
Il mito di Iside è narrato nel Testo delle Piramidi ed è riportato anche nel De Iside et Osiride di Plutarco. Iside era figlia di Geb, dio della terra, e Nut, dea del cielo. Suoi fratelli erano lo sposo Osiride, Seth e Neftys che costituivano l’altra coppia divina del pantheon egizio. Osiride divenne il benefattore degli uomini e il primo sovrano dell’Egitto, ma il fratello Seth invidioso lo uccise, smembrò il cadavere e ne disperse i pezzi per l’intera terra del Nilo. Iside, afflitta dal dolore, si mise alla ricerca delle parti mutile, ricompose il corpo dell’amato e con i suoi poteri di Grande Maga riuscì a riportarlo in vita. Dall’unione di Osiride con Iside nacque Horus, il vendicatore, che sconfisse Seth e ripristinò sulla terra la regalità del padre, divenuto nel frattempo sovrano dell’aldilà. Alle vicende del mito sono legate le due festività principali dell’Isismo: il Navigium Isidis (5 marzo) e l’Inventio Osiridis (fine ottobre-inizi novembre). Il culto, inizialmente legato alla tradizione faraonica, godette di una grande fortuna a partire dall’età ellenistica quando ad Iside furono associati Serapide e ad Arpocrate, con i quali costituì la triade alessandrina. Arpocrate era il nome ellenistico dell’Horus egizio. Serapide era invenzione della teologia sincretica tolemaica e univa nella sua essenza Zeus, Ade e Osiride. Iside divenne la dea una quae est omnia (“una che è tutte le cose”) o myrionima (“dai mille nomi”) o come ricorda lo stesso Apuleio cuius numen unicum multiforme specie, ritu vario, nomine multiiugo totus veneratus orbis (Met. XI, 5), la dea cioè che aveva assunto le caratteristiche di tutte le dee olimpiche. In queste nuovi vesti “ellenizzate”, Iside affascinò anche il mondo romano.